Dal 18 al 21 settembre Slowfood ha celebrato la grandezza di formaggi nostrani e non solo a Bra (CN) con la decima edizione del Cheese, evento biennale che è molto di più di una semplice sagra di paese. Il tema formaggio è quindi ritornato alla ribalta grazie anche a Carlo Petrini che dal suo pulpito ha tuonato contro l’uso di latte in polvere nei processi produttivi.
E ogni volta che la questione casearia si prende la ribalta mediatica, qui a Dissapore scattano inevitabili le domande esistenziali. Infatti sono giorni che riflettiamo sul perché i formaggi più emettono miasmi letali, più ci mandano in estasi le papille gustative.
E perché alcuni puzzano tanto che sembrano stati reclusi in scarpe da tennis del 1975 e abbandonate sotto il sole?
L’EVOLUZIONE DELLE MUFFE
La causa principale è ovviamente l’ambiente batterico presente in ciascuno di essi, che però non è mai esattamente lo stesso. C’è differenza tra i fetori emessi dalla crosta rossastra di un Puzzone di Moena e il lezzo dovuto alle bluastre macchie delle muffe del Roquefort.
Toh, a proposito di muffe, un recente articolo del New York Times ha qualcosa da rivelare ai più inguaribili formaggiofili.
Infatti, un gruppo di ricercatori del Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi guidato dal biologo evoluzionista Rodriguez de la Vega, incuriositi da come le muffe selezionate per la produzione di formaggio cambino una volta introdotte nel processo di produzione, hanno scoperto mutamenti che non sono soltanto frutto di una certosina e utile selezione umana, bensì anche di costanti transfer orizzontali.
Messi a confronto i genomi di 10 tipi di Penicillium (6 presenti nel latte e 4 no), un importante fungo utilizzato in ambito alimentare, gli studiosi hanno costatato che il 5% del corredo genetico delle muffe esaminate dispongono di parti di DNA adottati da altre specie.
In buona sostanza e in virtù del più basilare principio darwinista, per sopravvivere alle condizioni imposte dagli ambienti in cui vivono, anche le muffe presenti nei formaggi accolgono tratti di DNA che, saltando da una specie a un’altra, permettono loro di rinnovarsi ed evolversi nel tempo. E svolgono inoltre un’efficace azione di protezione per i formaggi.
Probabilmente questi continui salti di DNA da una specie a un’altra sono dovuti ai processi di produzione casearia, certo è che sono passaggi recenti, dati che non hanno avuto finora abbastanza tempo per ulteriori evoluzioni.
Insomma, avreste mai pensato che alcuni degli odoracci più improponibili della tavola siano frutto di un secolare e microscopico processo di evoluzione?
ORIGINI MALEODORANTI
Il magico mondo delle puzze casearie trabocca di storie e aneddoti. Tanti formaggi adesso decantati sono nati da casualità e dimenticanze come quella che portò un anonimo casaro lombardo a “scoprire” il Gorgonzola più di mille anni fa: dimenticata la cagliata per un’intera notte all’aperto, il giorno successivo la ritrovò tempestata da muffa. L’ardito signore l’assaggiò, apprezzandone il sapore pungente e, successivamente la offrì ad alcuni ospiti che non si tirarono indietro nel celebrarne il gusto.
Gli erborinati, campioni di puzza senza eguali, hanno riscontrato grande successo tra nobili e letterati nel corso dei secoli, tant’è che Carlo Magno non faceva mistero della sua passione per il Roquefort, così come Diderot che lo insignì del titolo di “re dei formaggi”. La prima attestazione del formaggio pirenaico risale al 1070.
Anche il Cabrales asturiano, che ha l’aspetto di un gorgonzola iper-invecchiato, ha una storia millenaria essendo già noto ai pellegrini che percorrevano il cammino di Santiago intorno all’anno Mille, ma solo durante l’Exposicion Agricola di Madrid del 1857 ottenne una maggiore risonanza.
Il Bleu d’Auvergne, invece secondo quanto riporta la leggenda, nacque grazie a un certo Antoine Roussel che introdusse le muffe ritrovate casualmente in un tozzo di pane di segale nel latte inacidito. Les jeux sont fait.
Forse a pochissimi suonerà familiare il nome di Marie Harel eppure a lei si deve l’avvento del principe dei formaggi transalpini, il Camembert de Normandie. In associazione con un prete in rivolta che nascondeva nel cortile della sua casa durante la Rivoluzione Francese, ottenne questa molle leccornia di cui Napoleone III era ghiotto. La caratteristica confezione circolare in legno la si deve invece all’ingegnere Ridel che nel 1880 la introdusse per agevolarne il trasporto.
Ai monaci benedettini che intorno al 660 fondarono un monastero in Alsazia attorno al quale si sviluppo un villaggio si deve il Munster, mentre la paternità del temibilissimo Limburger, autentica violenza nasale, è da attribuirsi al belga Rudolph Benkerts che nel 1867 lo produsse per la prima volta nella cantina di casa sua dove soleva far fermentare il latte di capra.
Non solo storia, ma anche il mito ammanta l’origine del Casu Marzu, il rancido formaggio sardo messo al bando dall’UE per via delle larve vive della mosca del formaggio che lo abitano e che ne determinano sapore e odore. I pastori sardi, in quel fermento di vita larvale danzante, intravedevano rituali magici e cercavano di decifrare inspiegabili eventi.
Di certo c’è che questo prodotto è una sorta di metafora dello scontro tra vita e decadimento.
Di norma ai formaggi viene affibbiato il nome del luogo di produzione ma non mancano le antonomasie a mettere in guardia i più arditi escursionisti palatali e olfattivi. Il Puzzone di Moena, suprema perla casearia trentina, non ha bisogno di ulteriori presentazioni, così come il Marcetto Teramano, parente stretto del Casu Marzu avendo anch’esso larve vive della Piophila Casei.
Stesso principio anagrafico per il francesissimo Vieux Boulogne, in cui il “vecchio” del nome è da attribuire al brutalissimo olezzo che perfino il naso elettronico della Cranfield University ha decretato essere il più fetido tra i formaggi del mondo nel novembre 2004.
COME NASCONO LE PUZZE
ERBORINATI
La parola erborinato deriva dal dialetto milanese erborin, che vuol dire prezzemolo. Il metodo di produzione è simile a quasi tutti i formaggi di questo tipo accomunati dall’innesto di funghi durante la lavorazione.
Il Gorgonzola si ottiene da latte vaccino intero pastorizzato. La cagliata viene inoculata con muffa blu e fermenti lattici a una temperatura di circa 32°. Il formaggio viene successivamente trasferito in ambienti a temperatura controllata intorno ai 18-20° e viene poi salato prima di trascorrere almeno 2 mesi a stagionare tra 5° e 8°. Durante la maturazione, la pasta viene forata diverse volte per favorire lo sviluppo delle muffe.
Sebbene sia parente del nostrano Gorgonzola, quello del Roquefort è un processo più complesso che dipende molto dalle condizioni climatiche. Si produce solo nell’area montanara che circonda l’omonimo paesino di meno di mille abitanti nei Medi Pirenei. Il latte crudo di pecora viene riscaldato e fatto coagulare aggiungendo del caglio. Viene così iniettata la Penicillium roqueforti, la muffa che nei tre mesi successivi prolifererà grazie alle correnti d’aria che penetrano dalle fessure della roccia una volta che il formaggio sarà trasferito a maturare nelle grotte tra le montagne intorno a Roquefort.
CROSTA ROSSA
Diversi formaggi fetecchioni hanno una particolare crosta rossa dalla consistenza unta. Puzzone di Moena e Taleggio sono tra i più famosi prodotti italiani, ma all’estero Limburger e Munster sono attendibili esempi di lezzo aggressivo. Ciò è dovuto alla stagionatura e ai lavaggi con una speciale salamoia arricchita con una coltura batterica (Brevibacterium linens) che indurisce la crosta determinandone inoltre il colore scarlatto.
IL VERMETTO DOVE LO METTO?
Quello del Casu Marzu è un procedimento interessante. Si fa con latte di pecora o capra, il caglio viene lavorato e successivamente la cagliata viene inserita nelle tradizionali forme. Dopo un breve periodo di stagionatura il formaggio viene estratto dalla forma, si asporta la crosta e una delle due facce più ampie viene incisa.
Conservato in un ambiente caldo e buio, viene infestato dalla Piophila Casei, ovvero la mosca del formaggio che vi depone le uova che, una volta schiuse, consentiranno alle larve di proliferare. Queste avviano un processo di osmosi con gli enzimi del latte: si nutrono del formaggio scavandolo e rilasciano a loro volta sostanze che ne arricchiscono sapore e odore e lo rendono morbido tanto da poter essere spalmato. La maturazione completa avviene tra 3 e 6 mesi.
FORMAGGI PUZZONI E ABBINAMENTI: CHI VA A BRACCETTO CON CHI
Siamo in un campo forte. Sapori forti, abbinamenti forti. Aggiungere Venere al vino è come aggiungere fuoco al fuoco. Un matrimonio fortunato da secoli.
GLI ERBORINATI, DUE STAR: GORGONZOLA & CAMEMBERT
GORGONZOLA
Quelle viuzze verdastre fanno accapponare la pelle ai più, mentre esaltano le ghiandole salivari con ingenti produzioni di ptialina per gli amanti del genere. Così bello e variegato, il gorgonzola ha bisogno di un vino con un bouquet ricco di aromi primari e secondari. Ama la sua regione, quindi un Barbaresco lo farà felice. Abbinamento meno consueto ma comunque d’effetto è con un passito, Marsala per eccellenza (così lo ricicliamo anche per il dolce). Il tutto genera riflessioni importanti, un abbinamento da meditazione. Ideale per i Kierkegaard solitari, meno ideali nelle feste con gli amici.
CAMEMBERT
Alt, qua siamo alle prese con un formaggio social. Tutti conoscono il Camembert: versatile, dal nome vellutato e pieno di emme, nonostante l’olezzo acidulo lo si sente nominare dappertutto, messo dappertutto. Siamo davanti ad uno di quei formaggi puzzo ma me lo posso permettere, presenza frequente negli aperitivi d’un certo livello. Si sposa bene con prosecco dolce, rosati del Sud Italia. Un sorso di vino, un cubetto di Camembert, uno-due, uno-due e sei ubriaco. Facile.
ROSSO PASSIONE: PUZZONE DI MOENA
Con quell’invitante crosticina rossa abbiamo il classico abbinamento-dribbling: accontenta tutti. Ha un aspetto simpatico questo formaggio: una forma dalla crosta dura e dal cuore chiaro e morbido. Apparentemente meno impegnativo del cugino gorgonzola, birre trappiste e ancora vini rossi invecchiati. Una Orval e un principio d’inverno, oppure un matrimonio tutto trentino con innaffiate di vino, un Alto Adige Malvasia DOC, perché i trentini vanno fieri del loro puzzone e non lo nascondono.
MENAGE A’ TROIS: MARCETTO, CASU MARZU E VINO
Confesso, me lo son lasciato per ultimo per due diversi motivi. Uno, è che questi due sono l’emblema della coscienza collettiva per quanto riguarda l’immagine dei formaggi dall’olezzo poco gradevole. Due, vien da sé che gli abbinamenti saranno per animi forti, aliti di ferro. Altro felice matrimonio in casa per il Marcetto, uve Sangiovese e Montepulciano, per un’idea di comunità che mette allegria. Frattanto, il Casu Marzu si dice sia ottimo con un Cannonau riserva superiore. Fateci sapere, io per ora mi fermo al Cannonau. Prosit!
VUOI IL FORMAGGIO? SEGUI LA PUZZA
Trovare un formaggio puzzone nel dedalo di supemercati, gastronomie gourmet, fromagerie, potrebbe sembrare semplice. Ovviamente non lo è. C’è da ammettere che molto spesso il grande pubblico non è avvezzo ai sapori forti e contrastanti, soprattutto quando c’è una cattiva o nulla abitudine all’abbinamento, il che rende difficile l’identificazione e l’esaltazione delle peculiarità.
Quindi, a meno che il nostro puzzone non faccia parte del best of dei formaggi (vedi il già citato Camembert), ci tocca giocare ai piccoli esploratori. Con adeguato rifornimento economico a disposizione (se siete un po’ caseodipendenti, un’occhiata al CLAL.IT non guasta), ecco almeno tre luoghi dove un puzzone solitario che ci aspetta lo troveremo.
GRANDI SUPERMERCATI
Corsie e corsie di prodotti, l’archetipo del consumismo, il feticcio da abbattere, quello che volete: ma c’è da ammettere che nei grandi supermercati si trova sempre un po’ di tutto. Dalle salsine etniche ai biscotti bioveg, i formaggi si ritagliano quasi sempre un imponente banco frigo, e qua e là spuntano anche i nostri amici dall’odore particolare.
Di solito, prezzi giusti, non troppo ritoccati. Il gorgonzola, decisamente tra i più venduti, si aggira intorno ai 12 euro/chilo, massima diffusione nel periodo freddo (possiamo facilmente capire il perché). Una fettina può tranquillamente capitolare nel frigo della famiglia media italiana, con sommo orrore o gioia del coniuge che la becca nel frigo.
FROMAGERIE
Quando entro in una fromagerie, mi sento come se entrassi in una libreria. L’odore è fermo e persistente. Siamo nel tempio dei tempi dei formaggi: in una fromagerie di solito si trovano alcune chicche interessanti, dipende dall’umore e dalle attitudini di chi lo gestisce.
Prepariamoci a sborsare più di quanto avremmo pensato, ma anche a trovare il formaggio puzzone della nostra vita. Siamo nel regno di Sua Maestà Casearia, un po’ di rispetto. Inevitabilmente, una volta varcato l’uscio ed assaporata l’aria fresca (o carica di smog), ci sentiremo un po’ più fighetti.
SAGRE
Sagraioli di tutto il mondo uniamoci. Per molti formaggi, l’unico modo per reperirli diffidando da ogni imitazioni è andarli a cercare nelle verdi vallate dove sono state prodotti. Dopotutto, Armiamoci di pantaloni comodi, facciamo i buchi alle cinturte e prepariamoci a provare formaggi su formaggi, intervallando i sapori con grandi sorsate di vino, alla ricerca del puzzone perduto.
Non dimentichiamo: le escursioni fuori regione, le fattorie locali, le escursioni all’estero, toccate e fuga a casa dei nonni dove quell’amico mio mi ha portato quel formaggio lì. Il formaggio è espressione dell’ambiente di un posto, delle sue caratteristiche climatiche, del modo di prendersi cura di qualcosa che stagiona e che cambia durante i mesi, travalica i climi. Ovunque voi siate, ingozzatevi.
IL PUZZONE LO VOGLIAMO OPPURE NO?
Alla fine di questa transiberiana casearia, la domanda viene più o meno spontanea: questi formaggi puzzoni sono apprezzati dal grande pubblico oppure decantati soltanto dai cheese sommelier?
Le risposte sono molteplici, alcune vengono dai carrelli degli italiani. Questi formaggi si comprano eccome. Il CLAL, che si occupa dell’analisi dei mercati lattiero-caseari, ha riscontrato, per quanto riguarda il gorgonzola (di sicuro il più amato tra gli italiani), un aumento di +0,30 centesimi di euro al kg all’ingrosso tra il 2013 e il 2014, salvo poi stabilizzarsi nel corso del 2015 intorno ai 5 euro.
Tutto questo sempre mantenendo una richiesta molto alta, molto più decisa in Lombardia e zone limitrofe che al Sud, chiaro, ma rimane pur sempre un prodotto a diffusione nazionale. Stesso discorso si può applicare con nomi molto conosciuti come il Camembert oppure il Limburger, che si fanno forti di un’immagine molto patinata fornita dai loro produttori.
Purtroppo non tutti i palati dello stivale possono assaggiare gli stessi formaggi. Al di là del gorgonzola e di altre fortunate caciotte che viaggiano su e giù, dentro e fuori l’Europa, ci sono degli esempi squisitamente locali che per motivi di vario tipo, raramente escono fuori dalle comunità in cui vengono prodotti.
Alcuni tipi di toma piemontese sono tutt’al più conosciuti solo di nome dai popoli che non appartengono a quella fascia di produzione che va dalla Liguria alla Provenza, passando per il Piemonte. Così come innumerevoli tipi di pecorini campani, calabresi, siciliani. Esperimenti prodotti in scala ridotta, diffusi in loco, stop. E i nostri palati avidi di sapidità piangono.
Non c’è da perdersi d’animo: fiere come Cheese, articoli come quello del The Daily Meal e ancora una volta le sagre paesane accorrono in nostro aiuto. Ci fanno scoprire un mondo dove brulicano fermenti e penicilline, muffe ed odori che più o meno segretamente possiamo ammettere di apprezzare. Quindi, spazzolino e dentifricio alla mano, ognuno parta e scopra il proprio formaggio del cuore: perché oltre la puzza c’è di più.
[Crediti | Link: Dissapore, New York Times, Daily Meal. Immagini: New York Times, Serious Eats]