La scorsa estate ho cenato alla Madonnina del Pescatore, il ristorante di Moreno Cedroni a Senigallia. Piatti ottimi sono stati mangiati, pettegolezzi scambiati, bicchieri di vino tracannati. Un’esperienza bellissima, della quale il cibo era una parte.
Fino al dessert. Non senza teatralità, a me e alla mia commensale vengono portati in tavola due guanti azzurri di lattice, che indossiamo. L’effetto esame prostatico è dietro l’angolo, per sicurezza non ci guardiamo negli occhi.
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“Bene, ora è il vostro turno di lavare i piatti” annuncia il cameriere. Ecco che arriva una lastra di plexiglass sulla quale sta una spugna: gialla e porosa sotto, verde e rugosa sopra. Noi ridacchiamo: siamo ormai completamente concentrate. Quando arriva anche il “sapone”, squittiamo per la delizia. Anche le persone sedute agli altri tavoli lanciano occhiate nella nostra direzione: vorrebbero giocare anche loro.
Ovviamente, la spugna è Pan di Spagna, il sapone crema pasticcera, la schiuma gelato. Il dolce è buonissimo. Ma soprattutto: è divertente.
E questo “soprattutto” è uno di quei “soprattutto” che scavano fossati tra gli appassionati: meglio lo chef ludico o lo chef di sostanza?
Io mi sono schierata da tempo: la prima esperienza autonoma in un ristorante stellato fu a 20 anni, quando trascinai il mio fidanzato di allora al Joia per festeggiare il nostro primo anniversario.
Ora: il Joia, del sempre discusso Pietro Leemann, non è il locale che consiglierei per il battesimo dell’alta cucina: il posto non è particolarmente scenografico e la cucina è, come dire, ostica.
Insomma, era non senza perplessità che ci trascinavamo lungo il menu degustazione, fino al momento spartiacque: l’arrivo del piatto “Un Sasso rotola”.
Il cameriere, molto formale, si avvicinò al nostro tavolo con un piatto a un’estremità del quale stava un supplì, mentre sull’altro lato era spalmata una salsina. Con aria cerimoniosa, sollevò un lato del piatto lasciando che il supplì-slavina travolgesse la crema, per finire la sua corsa sul bordo del piatto.
In silenzio il cameriere. In silenzio noi.
Il fidanzato disse: “Non si gioca con il cibo”. Io pensai: “Non dureremo”.
Ripensandoci, penso di essermi schierata molto prima. Ecco: ai pranzi in mensa alle elementari. La regola rispetto al cibo, in quel caso, era: puoi giocare con tutto quello che poi mangerai, non puoi fare pasticci con ciò che intendi avanzare. All’epoca non mangiavo formaggio, mentre il mio amico Filippo sì, e quindi a lui spettavano lunghi minuti di delizia in cui poteva dedicarsi all’intaglio della sua sottiletta con il coltellino di plastica, ricavandone omini commestibili. Io mi consumavo d’invidia.
E allora da dove viene la mia difesa del giocare con il cibo, è forse un trauma infantile irrisolto?
In fondo non sono stati anni facili, Filippo si è tatuato un telefono rosso con le rotelline sul braccio perché era un giocattolo che gli veniva sistematicamente sottratto dagli altri bambini.
[Crediti | Le immagini del piatto di Moreno Cedroni sono di Brambilla/Serrani, l’immagine del piatto di Pietro Leemann è di Academytimes.eu]