Il Périgord, regione del sudovest della Francia, è tra i maggiori produttori al mondo di castelli medievali, borghi di charme e foie gras. La popolazione di oche supera di molto quella umana, e i cartelli turistici che indicano allevamenti e rivendite punteggiano la campagna.
Per chi arrivasse ora (sul pianeta), trattatello sul foie gras.
Questo pregiato paté è un alimento molto controverso: se la vendita è addirittura vietata in California, anche l’Unione Europea è freddina – un rapporto del 1998 conferma che le pratiche di allevamento per questa produzione sono dannose per gli animali. In Italia si agita più che altro l’Ente Protezione Animali.
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Il foie gras, letteralmente “fegato grasso”, si ottiene infatti ingozzando – letteralmente – gli animali, portandoli a mangiare così tanto da rendere il loro fegato enorme (e malato) (ma delizioso). Durante il periodo di “gavage”, che nel caso delle oche dura un mese (è più rapido per le anatre, 12-14 giorni), gli animali vengono nutriti quattro volte al giorno, inserendo loro in gola un tubo che deposita nello stomaco circa mezzo kg di un pastone di mais tritato, mais intero e acqua.
Anche se esistono forme più etiche, il procedimento ha, ovviamente, dei tratti di barbarie: gli animali sono rinchiusi e hanno spazi di movimento limitati, così che ingrassino senza consumare energie, la procedura di ingozzamento è piuttosto brutale, l’animale si ammala per il troppo cibo.
Il Périgord pare del tutto indifferente alle polemiche, e qui c’è foie gras – che qui è sempre d’oca, oie, e non d’anatra, canard – in ogni menu: dalla paninoteca (sandwich al foie gras 6,5€) al ristorante stellato. Siccome non so divertirmi, io (che non mangio carne) ho deciso di andare a visitare un produttore di foie gras durante le vacanze.
Una piccola nota su questo: per farlo, non sono stata costretta ad attendere il calare nella notte e a intrufolarmi non vista. Tutt’altro: le visite negli allevamenti, che comprendono sempre anche una dimostrazione di gavage, sono fortemente pubblicizzate dagli opuscoli degli uffici del turismo e dai produttori stessi: nelle foto a corredo, ci sono sempre oche che razzolano liete sui prati.
Fin qui la fredda cronaca. Ora viene il resoconto della mia visita.
SPOILER: l’esperienza mi ha un po’ turbato, ma del resto io sono mammoletta.
Da Elevage des granges, a Tursac, passano circa 400 oche al mese. Arrivo percorrendo una piccola strada di campagna e lascio l’auto proprio a fianco del recinto delle oche, che stanno in libertà in uno spazio molto ampio. Sono chiacchierine e di buonumore – o almeno così mi pare a una prima occhiata, ma non sono mica Konrad Lorenz.
Mi accoglie l’allevatore: intorno alla cinquantina, si occupa quotidianamente delle oche da foie gras da più di vent’anni. Mi conduce a fare un giro per l’allevamento. Prima tappa: i pulcini.
Sul pavimento di un grande capannone pulito e riscaldato ci sono duecento ochette: quando apriamo la porta, starnazzano con vocine acute e si allontanano compatte, come uno stormo di uccelli in volo. Arrivano qui quando hanno un solo giorno di vita, passano i primi due mesi chiuse nel capannone, finché non avranno le penne adatte ad affrontare la vita all’esterno.
La tappa successiva è la vita all’aria all’aperta: per i due mesi successivi le oche vagolano, mangiano l’erba del prato (in stagione), e cominciano a ingrassare mangiando mais. Per inciso, questo è tutto ciò che vedrebbe della vita dell’oca da foie gras chi passasse vicino all’allevamento senza visitarlo.
Sessanta giorni dopo le oche passano al gavage.
Il loro ultimo mese di vita (il quinto) è trascorso in una piccola stanza chiusa, dove sono ammassate a terra, separate in base al tempo già trascorso qui: le più vicine all’ingresso sono appena entrate, le ultime sono quasi pronte per la macellazione (una suddivisione che mi fa pensare al racconto di Dino Buzzati Sette Piani, in cui a ogni piano dell’ospedale ci sono pazienti progressivamente più gravi. Questo è il momento in cui comincio a deprimermi).
Qui c’è un odore pungente e l’aria mi brucia la gola. Al nostro ingresso, di nuovo le oche si spingono contro le pareti dei loro cubicoli per allontanarsi da noi. Io sono molto a disagio, soprattutto perché in posizione preminente troneggia l’inquietante strumento per il gavage, una sorta di carrettino da cui sporge una propaggine tubolare.
Sono in silenzio ormai da una decina di minuti quando si passa alla dimostrazione: l’allevatore prende un’oca dalle ali, quella starnazza ma nella presa ferma si immobilizza.
Le apre il becco con le dita, infila con un solo movimento fluido il tubo in gola, apre il rubinetto del pastone, estrae il tubo dall’oca e lo ripone. L’intero procedimento ha richiesto non più di alcuni secondi.
Mi chiede di toccare il punto dove ora c’è il mezzo chilo di pastone che l’animale digerirà, io accarezzo il collo morbido dell’oca, che non mi guarda. Sono ormai di umore miserevole.
L’allevatore prosegue ciarliero nella sua spiegazione: si capisce quando l’oca è pronta per la macellazione toccandole il ventre: il fegato si ingrossa così tanto da uscire da sotto la cassa toracica e arrivare fin qui, mi dice palpando l’animale (non è pronto).
Dato che la maggior parte delle polemiche intorno al foie gras si appunta sul gavage, guardo l’animale per cercare di capire se dia segnali di stress: l’oca cammina e si muove normalmente, non sembra che il collo le causi dolore.
Certo, è facile immaginare che la procedura per fare il gavage a 200 oche contemporaneamente (4 volte al giorno, ogni giorno) sia un po’ più sbrigativa della dimostrazione a cui ho assistito, ma al momento della mia visita nessuna delle oche nella stanza mostra segni evidenti di malessere fisico (che non è la stessa cosa di dire che non avverta dolore, ovviamente!).
Nel frattempo, l’allevatore ha lasciato l’animale libero. L’oca continua a infilare il collo tra le sbarre, cercando di tornare nella sua sezione insieme alle altre. L’allevatore continua a parlare e io la osservo mentre si accanisce.
Per un momento considero l’idea di dire qualcosa – può rimettere l’oca con le altre, s’il vous plaît? Ma so che sarebbe ridicolo, quindi taccio.
Per qualche ragione, l’insistenza cieca dell’oca mi strazia: non posso sopportare l’idea che questo animale dallo sguardo vitreo avverta un legame con gli altri della sua specie, e che soffra della sua momentanea solitudine in quella prigione (La sto umanizzando? Probabilmente sì. Ma del resto il legame della specie umana con gli animali domestici si basa su questo).
Quando, quella sera, rientro al gîte dove dormo incontro sulla porta la proprietaria della struttura: inglese, si è trasferita nella campagna francese 8 anni fa. Vuole sapere cos’ho fatto di bello.
“Sono andata a visitare un allevamento di oche da foie gras” rispondo io. “Oh” (pausa) “ti è piaciuto?” mi chiede con tono sospettoso, come se avesse appena scoperto che il mio hobby preferito è guardare gli incidenti in autostrada. Of course not, rispondo io, ma volevo capire.
“Ah, io non potrei mai” dice lei “Adoro il foie gras e temo che vedere come lo fanno mi farebbe passare la voglia di mangiarlo”, aggiunge, una linea di ragionamento che suona come un’eresia in quest’epoca in cui tutti ci affrettiamo a lamentarci per la scarsa trasparenza di ciò che mangiamo.
Eppure, in quel momento, le ho invidiato la sua scelta consapevole di ignoranza.