A inizio anno fu facile, nonostante i postumi dei bagordi di fine 2011, vaticinare che “l’apertura di Eataly Roma all’Air Terminal Ostiense farà così tanto rumore che a stento si parlerà d’altro”. E dopo l’inaugurazione fioccano le recensioni che la colgono in piena operatività, seppur ancora necessariamente in rodaggio; la tendenza è quella di evidenziare quante più magagne possibile, al punto da rendere la stroncatura di Eataly il nuovo classico della letteratura gastronomica.
Ultimo ma non ultimo il pezzo al vetriolo del giornalista/blogger Puntarella Rossa sul Fatto Quotidiano, pubblicato in due tempi con una certa, percepibile ridondanza. Ora non starò qui a sottolineare come il bersaglio Eataly per la testata dove fortissima è l’influenza di Marco Travaglio, sia perfetto. Mi limiterò invece ad analizzare le critiche di Puntarella Rossa chiedendomi quanto siano circostanziate, senza farmi influenzare dal fatto che l’imprenditore Oscar Farinetti sia notoriamente vicino al Pd, per necessità il Gran Nemico tanto caro al vicedirettore di cui sopra.
Insomma, questi i punti salienti evidenziati dal misterioso inviato di Puntarella Rossa, Agrette Sauvage:
— Clienti e luoghi comuni. Benvenuto fra la gente comune. Le cinture nere di gastronomia, che non solo riescono a distinguere un pistacchio siciliano da uno mediorientale, ma hanno visto un albero di pistacchio e sanno che la raccolta si effettua ad anni alterni e questo è un anno “no”, sono una irrilevante minoranza. Se si vuole far funzionare una struttura come Eataly la linfa vitale sono i curiosi, i consumatori non superesperti, la gente comune. Quella che oh, il pistacchio di Bronte, ooh la pasta di Gragnano e oh-oh-oh-oh-oh-oh Tafazzi.
— Marketing ridondante. Eataly non è una onlus, è un esercizio commerciale a scopo di lucro. Che poi questo lucro si realizzi promuovendo le eccellenze della gastronomia italiana è incidentale, qui si deve vendere e qualsiasi meccanismo psicologico atto a incrementare il fatturato è il benvenuto.
— Effetto centro commerciale. Inevitabile con questa metratura, la metratura di un luogo utilizzato assiduamente per un mese nel ’90 e poi lasciato degradare a ricovero per profughi e senzatetto, nonché deposito di negri morti droga. Per certi versi può anche essere un effetto desiderabile, visto che il romano medio ama il centro commerciale, e in preda alla voglia matta nel fine settimana affolla ogni strada che dall’Urbe porta ai centri-commerciali-più-grandi-d’Europa sorti come funghi nell’ultimo decennio, con effetti da esodo estivo sul già problematico traffico capitolino.
— Cacio e pepe a 20 euro. Il ristorante Italia è caro, la foto del menu pubblicata su Puntarella Rossa vale più di mille parole. E non è solo un discorso di “food cost”, che come ben sappiamo non può mai superare il 20% del prezzo in carta (trattorie e pizzerie dai grandi numeri in luoghi con affitti bassi possono forse arrivare al 25) e che qui incide ancora meno. Il problema è anche una cucina estremamente elementare. 20 euro una parmigiana di melanzane, 24 un piatto di tortellini in brodo, 35 un brodetto all’anconetana.
Seriously?
E la sensazione è che l’impostazione della cucina sia proprio questa, anche se forse, con la brigata in rodaggio, è solo nella fase iniziale che i piatti sono così semplici e ultraclassici, in genere privi di deviazioni dal solco dell’ovvio. Perché nella cucina creativa incidono anche quelli che possiamo chiamare costi di ricerca e sviluppo, le ore spese e gli ingredienti utilizzati per un piatto che (forse) finirà in carta; costi in questo menu pari a zero. Anche se dobbiamo considerare due voci non da poco. La prima sono gli stipendi, che generalmente incidono ben più degli ingredienti utilizzati: quante persone lavorano nella cucina del Ristorante Italia? Qual è il rapporto stipendi/coperti? La seconda sono le altre spese fisse, ad esempio le opere d’arte presenti in sala. Modigliani non è esattamente un artista a buon mercato, due anni fa una sua testa è stata battuta a 43 milioni di euro… per cui mi sembra che il ragionamento secondo il quale, piaccia o no, almeno quattro o cinque dei 20 euro di quella cacio e pepe vadano ad ammortizzare l’arredo della sala e gli altri costi fissi, possa filare. In ogni caso sì, il ristorante è caro e non fa nulla per nasconderlo.
— Comportamento del personale. Se tutto è andato veramente come racconta Puntarella Rossa, mi piacerebbe comunque sentire l’altra campana, è da rivedere. A questi prezzi mi aspetterei un servizio da Pergola dell’Hilton, ma si sa, il grave problema dei ristoranti italiani è la difficoltà di trovare personale di sala professionale e competente. Io ad esempio farei attendere i clienti seduti allo splendido tavolo dei dieci, proiettando loro qualche filmato…
— Cacio e pepe della discordia. Un piatto di pasta freddo non è accettabile nemmeno in un’umile trattoria, figuriamoci in un ristorante pretenzioso e con pochi coperti. E no, il parmigiano non ci va, e ho una mia personale teoria: la cacio e pepe viene esaltata dall’affumicatura del pecorino di Gavoi, che preferisco in luogo di quello romano, anche se praticamente si fa e si consuma tutto in Sardegna. Posso anche comprendere il non rimandare indietro il piatto “perché era lì in qualità di recensore, non di cliente”: per il recensore, per questo specifico recensore, la vendetta è un piatto che a differenza della cacio e pepe si consuma freddo.
— Il senso di Oscar Farinetti per l’oligopolio. Sì, il marchio del distributore o “house branding” è una cosa che Farinetti sa fare. Tenendo conto che la sua personale interpretazione della disciplina passa direttamente per l’acquisizione dei fornitori. Finché c’è qualità a giusto prezzo è solo una sinergia in più, cosa importa se La Granda, Lurisia, Borgogno, Afeltra e altre aziende sono marchi di proprietà? Mi sembra l’ennesima variabile di quella vaga idea –veterocomunista e ancora non debellata in certi salotti sinistrorsi– secondo cui arricchirsi, ma anche solo generare profitti, sia un crimine. Però se i prodotti a marchio proprio sono in GDO, magari alla Coop che con la linea Fiorfiore cerca di mettere insieme una buona qualità a un prezzo abbordabile, va tutto bene, se lo fa un singolo imprenditore identificabile no. Mistero.
Insomma, se le cose stanno come raccontate da Puntarella Rossa siamo di fronte a un infortunio, magari cercato e bramato da un recensore che sperava di trovare materiale per una stroncatura ma pur sempre un infortunio che non dovrebbe capitare. Il problema è quando da un piatto sbagliato si passa ad attaccare, passando ai massimi sistemi, una struttura che rivaluta un quartiere e si propone come cuore pulsante di una Roma gastronomica desiderosa di parlare con tutti. Questo, nell’attesa di provare con mano la cucina del ristorante Italia, a questo punto una tappa obbligata e prossima.
E se nel frattempo qualcuno di voi lettori ci ha già mangiato, avanti con le testimonianze!
[Crediti | Link: Dissapore, Il Fatto Quotidiano, Puntarella Rossa, tgCom. Immagine: Puntarella Rossa]