Quando vedo il commensale di un ristorante chiedere e ottenere dal personale che i resti del suo pasto vengano incartati e serbati in una doggy bag, mi deprimo sempre un po’. Sono io, eh: permettere al cliente di portare a casa il cibo avanzato per darlo al proprio cane, al netto del mio essere ostinatamente ancorata a consuetudini del passato, è una “regola comunemente accettata nella civile convivenza”, oltre che una buona pratica per ridurre gli sprechi alimentari.
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Di più, da oggi è legge.
Lo hanno deciso i giudici della Cassazione annullando la precedente condanna inflitta a un signore friulano che, in vacanza in un albergo del Trentino, non aveva avuto il permesso di portare via gli avanzi e di riempire la borraccia. E per sovrappiù, assolvendolo anche dall’accusa di aver ingiuriato l’albergo definito “uno schifo”.
A voi lettori attenti di Dissapore, non sarà sfuggito che con una sentenza abbastanza rivoluzionaria i giudici hanno creato ben due precedenti. Dopo il loro pronunciamento infatti, i ristoranti e gli alberghi non possono più negare la doggy bag ai loro clienti. I quali, in caso di disservizi subiti (in legalese “l’esimente della provocazione”), possono esprimere anche critiche estreme come ad esempio “è uno schifo”.
Per la Cassazione si tratta di “legittimo esercizio del diritto di critica”.
Resta il fatto che da noi, prima di questa sentenza, la doggy bag invece che aumentare tendeva a sparire.
Diversamente da quanto accade nei paesi anglosassoni dove farsi incartare gli avanzi del pranzo in un ristorante, una pizzeria o un fast food per portarli a casa è un’abitudine. Malgrado solo in Italia restino invenduti nei diversi punti vendita 240mila tonnellate di alimenti ogni anno.
Eppure, al netto del politicamente corretto ora sancito dalla legge, in un misto di vergogna e disdegno, tendo istintivamente a catalogare chi chiede di portare a casa gli avanzi del pasto o del vino non consumato tra gli svaporati eccentrici.
Ma l’ho già detto, sono io.
[Crediti | Link: La Stampa, Mondiali Brasile]