Dopo Carlo Cracco e Master Chef nulla sarà più come prima? Se uno chef non diventa anche star televisiva finisce per avvilirsi rinchiuso nel suo ristorante, oltretutto rischiando di farlo andare gambe all’aria, dati gli alti costi di gestione e la clientela decimata dalla crisi?
L’abbiamo chiesto a Davide Oldani e Filippo La Mantia, cuochi già molto famosi ognuno a modo suo, che hanno debuttato su La 5 con il nuovo talent show The chef. La competizione vedrà impegnati per 11 settimane 14 sfidanti, giudicati da Oldani e La Mantia, e allenati dalla foodblogger Chiara Maci e dallo chef Alessio Algherini.
DO. A dire il vero la mia prima esperienza televisiva risale al ’92, quando con Gualtiero Marchesi ho partecipato a Ristorante Italia su Rai 1. Cucinavo i suoi piatti. Da allora la tecnica di cucina si è parzialmente evoluta, ma quello che soprattutto è cambiato è il modo di comunicare. La compostezza e la professionalità di Marchesi non bastano più, ci vuole anche un po’ di show, e per questo i talent sono ideali per arrivare alla gente e divulgare la propria esperienza.
Naturalmente servono anche per allargare la fama del D’O, il mio ristorante che sta per festeggiare i primi dieci anni. Ho imparato tante cose ed è giusto che le faccia conoscere anche a chi non può venire a trovarmi al D’O o magari non ci riesce: ho prenotazioni per il prossimo anno e mezzo. E poi non c’è web che tenga: ancora oggi la cucina si comunica soprattutto in televisione.
FLM. Anch’io avevo già lavorato in televisione: nel 2001, quando ho aperto il mio primo ristorante a Roma, ho girato un’ottantina di puntate per il canale Alice. Mi era piaciuto molto, ma poi mi sono fatto assorbire completamente dall’attività di cuciniere… meglio: di oste. Perché va detto che non sono uno chef come Oldani: ho iniziato a quarant’anni da autodidatta e non ho fatto la gavetta dei grandi ristoranti internazionali.
Oggi, a 53 anni, ho appena chiuso l’esperienza del mio ristorante all’hotel Majestic di Roma, un locale con 60.000 presenze all’anno. Prima di aprirne uno nuovo, mi sono divertito con questa “insurrezione televisiva”. Ma il mio palcoscenico resta il ristorante.
Davide e Filippo: durante il programma avete avuto discussioni? Come vi siete divisi i ruoli?
DO. Siamo amici e siamo così diversi che ci siamo integrati. Abbiamo diviso i compiti in maniera spontanea: io ho fatto la parte più tecnica, quella del giudice che richiede precisione e professionalità. Filippo invece è il buono della coppia e l’intrattenitore.
A patto che nei piatti da giudicare non ci siano aglio e cipolla, che lui ha bandito dalla sua cucina e non sopporta di vedere nemmeno nei piatti degli altri.
FLM. Con Davide siamo amici da anni, e abbiamo persino fatto le vacanze in barca insieme, in Sicilia. Solo che lui è un uomo di pianura, e in barca stava male. In quel caso ho cercato di insegnargli la vita del marinaio, mentre a The Chef sono stato io a imparare da lui. Io cucino per istinto, sono intuitivo, mentre lui razionalizza e ha creato una propria tecnica basata sull’armonia dei contrasti. Mi è difficile essere inflessibile come Davide, anche perché mi diverto moltissimo.
I partecipanti sono cuochi casalinghi, ufficiali di marina, bancari, commercialisti… In loro ho ritrovato il me stesso di vent’anni fa quando, dopo la mia prima vita da fotoreporter a Palermo, ho capito che volevo reiniziare da un ristorante: è la stessa voglia di mettersi in discussione. Non ho fatto il cattivo perché non c’era motivo, odio essere giudicato e quindi mi piace parlare, confrontarmi, ma non giudicare.
Cosa invidiate a Carlo Cracco (e a Master Chef) e cosa no?
DO. Non gli invidio nulla, sono felice perché è un amico che ha avuto successo in maniera molto professionale ed è un grande conoscitore della cucina italiana. Però ha un brutto difetto: è milanista.
FLM. Non provo invidia per nessuno. Se ha successo vuol dire che lo merita, e persino lui avrà passato momenti d’insicurezza. È un bravissimo chef con un percorso straordinario, e proprio per questo non m’è piaciuto quando in un’intervista, parlando di programmi di cucina, ha detto che gli show numeri due resteranno sempre i numeri due. Anche lui, come cuoco, è partito dal fondo della classifica, no?
E ad Antonino Cannacciuolo?
DO. A lui invidio la napoletanità, l’essere così spontaneamente simpatico e spensierato. Ma non invidio chi finisce sotto le sue grinfie in Cucine da incubo.
FLM. Cannavacciulo è un figo pazzesco, rappresenta il mediterraneo allo stato puro, è fantastico. Però è assurdo immaginare lui, napoletano, con un ristorante al lago d’Orta.
Davide Scabin e La Terra dei Cuochi?
DO. A Davide invidio l’aver mandato il suo cibo nello spazio, le lasagne e il gorgonzola disidratato nella Sojuz con gli astronauti. Ma non invidio la quantità di studio che deve avergli dedicato.
FLM. È un grande, un pazzo scatenato, ma in quel programma – a mio umile giudizio – non c’entrava niente.
Cosa pensate dei cuochi televisivi che non hanno un ristorante?
DO. Credo che sia un’ottima scelta di vita. Ma fanno parte di uno star system diverso, quello degli showmen televisivi.
FLM. Alessandro Borghese, Simone Rugiati… sono persone che quando poi prendono in gestione un ristorante hanno ovviamente dei problemi. Se faccio un piatto in tv per vent’anni, non potrò mai capire cos’è la leadership su una brigata di 14 persone. E bisogna essere cuochi e manager. Per questo noi siamo stati chiamati infinite volte per fare lezioni a dirigenti e a studenti di economia.
Guardare i programmi di cibo serve a migliorare oppure è come guardare un qualsiasi show?
DO. Mi piace che gli spettatori li guardino come se fossero un talent di musica. Non è detto che debbano imparare, però si fa conoscere alla gente comune il mondo della cucina. E hanno successo perché la verità è che noi esseri umani siamo appesi a una sola cosa, al cibo. Tra l’altro, con questi programmi fa business tutto il mondo della cucina, ogni figura professionale, persino i giornalisti!
FLM. La gente si relaziona con i programmi di cucina come gli adolescenti davanti a Miss Italia o a Sanremo: col desiderio di partecipare. Il problema è che poi fare il cuoco li fa sentire fighi, tant’è vero che nessun italiano vuole più fare il cameriere o il maître. Ricevo tanti genitori, anche della Roma bene, con figli che vogliono abbandonare l’università per fare il cuoco.
Questi programmi non hanno un po’ stufato ?
DO. No, non hanno stufato. Persino mia mamma, che ha 82 anni e ha cucinato per la famiglia tutta la vita, li guarda con piacere.
FLM. La parte positiva è che riscoprono tradizioni, ricette, stile di vita alla mediterranea. La cosa negativa è che ci sono centinaia, forse migliaia di persone, che ormai campano sulla schiena dei cuochi: tutti sanno di vino, tutti ti devono fotografare il piatto, tutti sono food-blogger.
Qual è il genere di ragazzo/a che prendereste in cucina?
DO. Anzitutto chi si presenta pulito e in buono stato. Deve aver voglia di fare, ma con un colloquio è difficile capirlo. Va messo alla prova. E poi non mi piacciono i curriculum dove sono enumerate svariate passioni. Voglio veder scorrere nel sangue solo cucina, dev’essere una passione esclusiva.
FLM. Ho bisogno di collaboratori molto motivati. Cerco di capirlo guardandoli negli occhi, ma è quando li metto alla prova in cucina che capisco se sono svogliati, se la loro è solo una curiosità. Le donne sono mitiche: in pasticceria ho solo ragazze, arrivano prima e se ne vanno dopo, non si lamentano mai. Sono passione allo stato puro.
Televisivamente parlando, qual è il vostro cuoco preferito?
DO. Gordon Ramsay, perché già nel 91 ha iniziato a mischiare cucina e show.
FLM. Carlo Cracco, perché ha il phisique du rôle.
E in cucina?
DO. Gualtiero Marchesi e Alain Ducasse, i miei maestri.
FLM. Davide Oldani, Giancarlo Morelli, Andrea Berton, Claudio Sadler. Cuciniamo spesso insieme, e io sono l’unico non stellato.
Cosa vi aspetta dopo The Chef?
DO. A novembre sono stato invitato a esporre la case history del D’O ad Harvard. La lezione verrà pubblicata sull’Harvard Business Review.
FLM. Mentre Davide tiene lezione, io sarò impegnatissimo con l’apertura del mio nuovo ristorante, dove il vincitore di The Chef avrà l’opportunità di fare uno stage di un anno.
[Crediti | Da Io Donna, Immagini: Vanity Fair, TmNews]