Non sarà un caso se tra qualche ora a Città del Messico si faranno i nomi dei migliori 50 ristoranti dell’America Latina, no? No, confermo, il luogo scelto per i Latin America’s 50 Best Restaurant non è un caso: dopo il Perù, nuova Mecca per gourmand che masticano spagnolo e ancora più volentieri smandibolano piatti patinati in versione nuovo continente, ora è tempo di Messico.
Qualche settimana fa, mentre preparavo la valigia per il mio viaggio in terra messicana (bei tempi, sigh!), mi ero fatta qualche domanda sul perché la cucina di quel paese fosse stata scelta dall’Unesco come Patrimonio Mondiale dell’umanità. Oggi, dopo tre settimane di vacanza (e un’esplorazione stimata del 20% della terra messicana, perché di più era impresa ardua anche per Mandrake) credo di averci capito qualcosa in più.
Qualcosa che, senza dubbio e senza macchia, mi fa tifare per l’Unesco e la sua squadra di mangiatori col pallino per la preservazione del bene universale che è la cucina messicana.
QUALI SONO LE BASI
Iniziamo dall’inizio. Ma l’inizio vero, quello delle piramidi a gradoni e non quello degli spagnoli che arrivano a spadroneggiare e fanno la parte dei colonialisti cattivi e un po’ scemi. Mentre noi qui ci dilettavamo con carne arrostita e speziata, laggiù si mangiavano zucche, pomodori, mais, patate, e pomodori.
Sì, lo so che ce lo hanno insegnato alle elementari insieme alla storia di Cristoforo Colombo e il suo dito indice che credevano di sbarcare altrove. Lo so, ma parto ugualmente da qui per ricordare a chi non avesse ripassato il giusto tributo di Osanna che si deve a questa terra.
Cosa sarebbero i nostri spaghetti senza i pomodori?
“OGNI SCARRAFONE”, PRORIO COME IN ITALIA
Dire “cucina messicana” è un mezzo sacrilegio come dire “cucina italiana”. In realtà il plurale sarebbe d’obbligo anche solo dopo tre giorni nella sola capitale, dove non c’è una ma tantissime cucine messicane (e non contiamo le etniche e le contaminazioni). Ogni regione, ogni città, ogni buco sperduto di questo Paese ha la sua storia, il suo piatto, la sua versione tradizionale di piatti nazionali.
A noi potrà anche sembrare scontato, ma in alcuni casi la vacanza in Messico mi ha ricordato davvero una sorta di pellegrinaggio italico tra parrocchie e campanili che si arrogano la supremazia e veridicità di un piatto. Le sfumature, qui più che in altri Paesi, sanno fare la differenza.
Carne, pesce, mais, fagioli, peperoni, peperoncini, cavallette, formiche, cioccolato, lime, avocado, Mezcal, Tequila. Il tutto rimescolato in infinite combinazioni.
LE SEDICIMILA DECLINAZIONI DEL MAIS
Certo, dopo tre settimane si inizia a sentire una certa nostalgia di casa, culinariamente simboleggiata da una overdose di mais e da una crisi d’astinenza da grano tenero. Se la mancanza della pasta (quella vera) deve avercela messa Dio il terzo giorno quando ha plasmato il DNA dell’italiano, è vero anche che il mais può venire leggermente a noia.
Sarà per questo che, in un tempo piuttosto limitato, credo di aver sperimentato la più alta concentrazione di ricette a base di mais. Dai nostri pop-corn (ornamento da sputazzo libero durante le sessioni di grida assassine negli incontri di lucha libre), ai tacos e ai totopos, dalle gorditas alle onnipresenti tortillas (che qui non sanno di plastica, ve lo giuro) persino in versione azzurra (che poi il mais azzurro da crudo ha un inquietante colore grigio cemento).
La versione meno scontata e più sorprendente, per me, sono stati i tamales: nella foglia del mais viene cotta al vapore la masa (la stessa pasta per fare le tortillas) e poi farcita con carne di pollo o altro. La consistenza, per dirai alla Barbieri, è un mappazzone notevole ma con un sapore buonissimo. Quel retrogusto di pop-corn che mi ha silenziosamente inseguita per tutte le mie tre settimane messicane è innegabile.
Ma i tamales sono una meraviglia.
IL FASCINO E L’IGIENE (IGIENE ?!) DEI MERCATI MESSICANI
Mercati ovunque, mercati a perdita d’occhio, mercati come se non ci fosse un domani: il Messico non è solo mare, montagna e coltivazioni eroiche di mais. Ovunque ci sono comide economiche (cucine da campo allestite in garage o spazi creativi), ma soprattutto mercati. Dalla carne al pesce, esposti entrambi rigorosamente a temperatura ambiente, nei mercati messicani si trova di tutto, e quasi tutto commestibile.
A Oaxaca ci sono interi banchi di chapulines (cavallette fritte e aromatizzate), innumerevoli tipologie di mole, fornelli e griglie accesi ovunque. Lo street food, insomma, impera sotto forma di qualsiasi cosa da cacciarsi in gola.
A tutte le ore, ovviamente, partendo dalla colazione espressa preparata in un angolo di passaggio sulla strada, per arrivare al pollo arrosto ranchero del mezzo pomeriggio. Insomma, aveva ragione mia madre: sarebbe stato meglio un trattamento preventivo di fermenti lattici.
SANTA, SANTA, SANTA GUACAMOLE
Bella, buona e de panza. La guacamole è una sorta di istituzione che meriterebbe compendi filosofici monografici dedicati. Dimenticatevi delle salsine insipide e color verde marcio del vasetto: qui è sempre fresca, sempre diversa, sempre buona. Una sorta di boccata d’aria fresca tra fagioli e peperoni di tutti i colori, una parentesi crudista e veg in una cucina che di veg ha proprio poco, anzi pochissimo.
E, a dispetto di tutto, posso assicurare che “tiene pasto”, soprattutto visto che viene servita senza posate e con un mare di totopos (i triangoli di tortilla fritti).
PERICOLI E STRANEZZE MESSICANE
Se superate lo scoglio di ordinare qualcosa da un menu intraducibile o peggio, da uno declamato in una lingua a metà strada tra lo tzotzil e lo spagnolo, il resto sarà una passeggiata. A mie spese, comunque, ho imparato che la dicitura “poco piccante” (spesso rappresentata da un piccolo, innocuo cornetto di peperoncino) per il messicano medio non è un’assicurazione.
Quasi tutto è piccante, e c’è da diffidare pesantemente dalle salse messe a corredo dei piatti sul tavolo (a meno che non siate palati d’acciaio). Anche per i detrattori del coriandolo ci potrebbe essere qualche tranello inaspettato: è fresco, è tanto, è un po’ dappertutto. E in tre pietanze su tre potrebbe cominciare ad innervosire, oltre che a trasformare un pranzo in una full immersione in un bagnoschiuma.
Ultima avvertenza: il nodale (la “foglia” di fico d’India) ha un sapore lieve e gradevole, ma secerne una sorta di bava che renderà vischioso il vostro piatto. Sconsigliato per una cena romantica.
IL FASCINO ARCANO E PER ME MISTERIOSO DEL MOLE
Immaginatevi una rivoluzione copernicana nel piatto, dove non sarà più la carne il pezzo forte, ma la salsa. Per capire il mole, così mi hanno detto, bisogna costringersi a fare questa inversione dei poli. Se con la testa ero pronta, non lo sono invece stata col palato.
Il mole resta per me un mistero esplorato ma non sviscerato. Ha un sapore tra i più potenti che io riesca a ricordare fin dalle prime pappe: è dolce, è piccante, è acido. Stupisce, certo: anzi, per la precisione scardina certezze di palato che credevo scritte nella roccia. Lo confesso: non l’ho capito.
Nella versione di Puebla o in quella del Chiapas, per me, ha fatto poca differenza. Ne esco sconfitta.
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PUJOL, LA SUPERSTAR DI CITTA’ DEL MESSICO
Dopo tre settimane di mercati, street food e cibo mangiato con le mani, mi sono concessa il lusso di provare quello che è considerato il miglior ristorante di Città del Messico: Pujol. Dello chef Enrique Olvera avevo sentito meraviglie, ma non maneggiando a fondo la materia gastronomica tradizionale non capivo bene come avrebbe potuto rivedere i piatti classici.
E invece.
La sera della festa nazionale dell’indipendenza, dopo aver aspettato due ore e senza prenotazione, con 75 euro ho bevuto uno Chardonnay messicano e fatto un tour di 6 portate degustazione.
C’era il mais, come previsto, c’era il mole (nuovo e “antico”, maturato 763 giorni) come ampiamente previsto (ma senza carne, pura salsa). C’erano le formiche nella maionese, le larve di formica nel baccello, un polpo con tortilla al nero e maionese all’habanero che ricorderò a lungo.
Patinata e primitiva: una cucina da 10 e lode.