Dimenticate per un attimo il Caffé Florian e il suo “supplemento musica”. Trasferitevi da Venezia al Lido e visualizzate con colori accesi e regia neorealista un giorno alla Mostra del Cinema. Il tutto rigorosamente senza cartellini appesi al collo, senza la minima parvenza di un pass stampa e di free entry o free drink.
Immaginate, insomma, di mescolarvi tra la folla anonima degli spettatori, quelli che pagano il biglietto e si danno gli spintoni per vedere da più vicino il red carpet. Persino quando ancora stanno tirando l’aspirapolvere.
Quelli che si aggirano nel Movie Village senza scopo tra una proiezione e l’altra e che si incontrano/scontrano di continuo con operatori foto e video che parlano al telefonino e cambiano direzione mentre camminano come fossero oche impazzite. L’atmosfera in attesa del Leone d’Oro é un mix tra frenesia, tronisti di Uomini e Donne con occhiali da sole sotto la pioggia, aspiranti Miss Muretto in cerca di una telecamera accesa e cibo da far accaponare la pelle.
Sì, perché tra un attore hollywoodiano e un Elio Germano, bisogna pure nutrirsi. E l’impresa, ve lo assicuro, é ardua.
Scordatevi il ristorante dei (panoramica sul mare e personale ben vestito e impacciato), perché se ci pranzano loro, noi non possiamo entrarci. Non é dato sapere quale sia il menu, vige una sorta di mutismo al limite dell’omertá che mi impedisce anche solo di immaginare cosa sta mangiando Carlo Verdone attraverso le vetrate della sala da pranzo. Non mi sembra gradire un granché, ma potrei sbagliarmi.
Rientro nel Movie Village e noto il monopolio di “Tino Eventi”, il vero attore protagonista del cibo da Festival. Lo stesso logo rosso campeggia nel ristorante sulla spiaggia, nel corner della pizza, al bar caffetteria, nell’indimenticabile self service. Il signor Tino, insomma, ha vinto la guerra dei catering veneziani, estendendo a tutto il villaggio del cinema la sua deprecabile idea di cucina da campo.
Forse qui farebbero fatica a riempirsi la pancia anche i protagonisti di “Nobi”, la pellicola di Tsukamoto presentata negli scorsi giorni e che parla di guerra e cannibalismo (da vedere assolutamente, meglio se a stomaco vuoto, fidatevi).
Bisogna essere dotati di coraggio per scegliere una delle proposte del self-service: tra insalate tristi incellophanate, depresse capresi incellophanate, indegni plateau di formaggi e salumi incellophanati, l’impresa é davvero difficile.
Al banco dei piatti caldi, poi, la fantasiosa ed eclettica scelta tra pasta al pomodoro o al pesto mi ricorda la mensa dell’universitá. D’altro canto quel pollo arrosto mezzo rinsecchito con le patate novelle non fanno crescere le mie aspettative, e non ci riesce nemmeno una sorta di ibrido tra ratatouille e caponata tagliata dalle mani “certosine” di un ciclope.
Mi guardo intorno: sento parlare in giapponese, inglese, russo; hanno il pass della stampa. Cosa penseranno gli inviati stranieri, presumibilmente colti e con una certa predilezione per l’arte, quando si troveranno di fronte ai piatti di Tino Eventi? Lo so, lo so: l’arte basta a sè stessa, ma provateci voi a mangiare una pizza spugnosa e freddina dopo un vaporetto, una camminata chilometrica, una proiezione da tre ore.
Vorrei dar loro una pacca sulla spalla: venuti in Italia con aspettative cinematografiche e (innegabile) anche gastronomiche si ritrovano qui. Qui, nella morte cerebrale della cucina italiana.
Basta, non ce la faccio. Provo a uscire da questo incubo e mi incammino verso l’Hotel Excelsior, dimora arabeggiante a tempo determinato di tanta gente dello spettacolo. “La gelateria mi salverá” penso per un attimo.
Poi butto la testa dentro e cosa vedo?
Un kebab incellophanato, preparato con anticipo (credetemi, non mi confondo con i rotoloni veneziani, no purtroppo!) Sgomento e fastidio. La capitolazione finale avviene al PalaBiennale, dove un baracchino riesce nell’impresa finora impossibile di farmi venire fame.
Eccoli lì, gli italiani che conosco io. Quelli che ci mettono un sorriso, che trovano un po’ di poesia anche dove normalmente non se ne trova. I panini sono ispirati, neanche a dirlo, al cinema e ai grandi attori: Gregory Speck (con speck), George Crudey (con prosciutto crudo), Al Panino, Bread Pitt, Briez Taylor (con brie), Tony Curtis (con tonno).
E poi, sono preparati quasi tutti al momento da una signora che parla strettissimo veneziano. Promossi i tramezzini a forma di Vesuvio, rimandati i panini citazionisti che soffrono un po’ del “fattore autogrill” caldissimi fuori e freddi all’interno.
Tornando verso la Sala Grande, mi imbatto in scenette che riportano indietro nel tempo: altro che ristorazione da cinema, qui si torna a “I soliti ignoti” e si incontrano gruppi con schiscetta (nella fattispecie fusilli al pesto) oppure spettatori alla fermata dell’autobus intenta a gustare il pranzo al sacco.
Si capisce: non é la crisi che morde, é l’offerta della mostra che non si fa mordere.
E comunque, Olive Kitteridge (miniserie tv con Frances McDormand) é un piccolo capolavoro di cinema per il piccolo schermo. Sono quasi certa che chi recita così bene sappia mangiare bene.
Mi é giunta voce che la suddetta non si sia fermata al Lido, ma abbia scelto “Il Mascaron” a Venezia.
Come darle torto?