Su Internet, in quello strano sottomondo dove tutti hanno un account Twitter, in questi giorni non si parla che di cervelli e chiappe in fuga, o, se preferite, di come vivano gli italiani all’estero.
Tutto è partito dal sito del Fatto Quotidiano, che ha una sezione intitolata appunto “Cervelli in fuga“: il blogger Matteo Cavezzali, che apparentemente vive in Emilia Romagna, tira fuori dal cilindro un post piuttosto sarcastico dal titolo:
“Italiani all’estero, ecco come passano realmente il loro tempo”.
[related_posts]
Dove si dice, fra le altre cose, che i nostri expat girano solo con altri italiani, si lamentano sempre del freddo, fanno lavori che in Italia non si sarebbero mai abbassati a fare e, soprattutto, mangiano da schifo: “Pesce affumicato, wurstel, orsetti gommosi, patate fritte. I più fortunati trovano un asporto cinese o un kebabbaro. Cercano disperatamente una pizza decente, alcuni giurano anche di averla trovata. Ma stanno mentendo.”
Apriti cielo. Si scatena la bagarre nei commenti e i post di risposta non si contano più: uno, sulle stesse pagine, lo scrive da Berlino Andrea D’Addio (il destino migratorio nel nome?), che prende le difese della categoria di appartenenza punto per punto. Così sul cibo:
“Mangiano italiano a casa, dove cucinano da soli (senza aiuto di nonne o mamme) e quando escono per una cena danno sfogo alla propria curiosità. Thailandese, palestinese, peruviano, bulgaro, sudanese, a volte persino (i più temerari) tedesco o olandese.
Sono persone curiose, non hanno paura di provare quello che non conoscono e si lanciano in nuove avventure. Certo, quando vanno al supermercato la qualità dei prodotti, soprattutto della verdura, è quella che è, ma alla lunga si trova una soluzione per tutto.
Per fortuna il tema dell’alimentazione non li occupa per il 30 per cento del loro tempo tra file alla cassa e preparazione del pasto a casa. C’è così tanto da fare in città che è meglio uscire e andare a vedere l’ennesimo vernissage gratuito di una mostra che a casa a mangiare un’ora e mezza davanti alla tv.”
Per la cronaca, l’86% dei lettori del Fatto Quotidiano appoggia la mozione D’Addio.
Ma come stanno realmente le cose?
La mia esperienza di vita in Finlandia è terminata da esattamente un decennio, ma tra testimonianze dirette e indirette mi sono fatto un’idea piuttosto precisa della situazione: gli italiani all’estero sono tanto eterogenei quanto lo sono quelli rimasti nello Stivale. Giovani e meno giovani, studenti e operai, imprenditori e artisti, conservatori e progressisti, calcolatori e avventurieri, stakanovisti e perdigiorno, simpatici e antipatici. Rispetto al cibo, però, è possibile delineare dei ritratti tipo, in un campionario volutamente non esaustivo.
IL PATRIOTA.
È all’estero, ma nel suo petto batte un cuore italiano e ostenta con fierezza le sue origini. Spigliato e spontaneo, a tratti fuori luogo, riesce a stare simpatico ai più e immancabilmente invita tutti a cena, dove cucina come la mamma gli ha insegnato. La pasta non manca mai, siano pennette tricolori o ragù, passando per tentativi di carbonara riusciti alla perfezione, almeno per i palati autoctoni che hanno assaggiato numerosi piatti di rigatoni con la frittata, ma mai le esecuzioni paradigmatiche di cuochi come i romani d’adozione Arcangelo Dandini e Luciano Monosilio. Performance che, più o meno romanzate, verranno raccontate alla mamma la mattina dopo.
Quella mamma che, del resto, arriva dove i supermercati locali –benedetta sia la Barilla, per la pasta e i sughi pronti, vere staple della dispensa italiana assieme al caffè Lavazza- non arrivano, spedendo per via aerea parmigiano e sottoli fatti in casa. Se ha dei coinquilini, il patriota si esibisce nell’occupazione pacifica della cucina, e baratta i turni di pulizie domestiche con i fornelli.
Che il menu finisca per ricordare quello delle “cene eleganti” di Arcore ha ragioni nazionalpopolari, non politiche: il patriota è felice di prendere Raiuno sul televisore di casa ed è l’ispiratore di capannelli di tifosi azzurri ogni volta che la Nazionale di calcio scende in campo, e cosa importa se i locali si esaltano solo per il basket o l’hockey su ghiaccio. Fuori casa ha provato un po’ di ristoranti italiani, che gli hanno confermato ciò che già sapeva: il miglior ristorante del mondo è, indovinate un po’, la mamma.
L’ACCAMPATO.
Spesso è giovane, alla prima vera esperienza fuori di casa e non abituato a cucinare. Il risultato è una vita allo stato brado, caratterizzata da arredamento discutibile, polvere, disordine e una dispensa in cui si accumulano cibi dall’alto rapporto sazietà/tempo di preparazione. “Pesce affumicato, wurstel, orsetti gommosi, patate fritte” è effettivamente parte della sua lista della spesa, “faccio da mangiare, non so cucinare” la citazione musicale che calza a pennello.
Se non vive da solo, il rischio che finisca sulla versione locale de “Il coinquilino di merda” è elevatissimo. Non esattamente un buongustaio, quando va a mangiare fuori preferisce i fast food: fra hamburger e ali di pollo, la soddisfazione è acuita dal non dover lavare i piatti, cosa che comunque accade solo quando l’alternativa è questa.
IL CONVERTITO.
Non essendosi mai sentito italiano, emigrando ha toccato il cielo con un dito. Non ci mette poi molto a uniformarsi ad altri usi e costumi, e in pochi mesi ha assimilato con lo zelo di un Borg gusti e orari locali. In Scandinavia cenerà entro le sei del pomeriggio, e la sua colazione inglese prevede sempre il bacon e spesso il black pudding. Più si allontana dal Mediterraneo, più radicale è la sua metamorfosi.
Non si sente a disagio, ma è genuinamente un pesce in acque internazionali. Quando torna in Italia, però, lo fa con un certo fastidio, non si sente “come loro” e rinfaccia a chi è rimasto tutte le magagne del Belpaese, dal deprimente quadro politico alla pressione fiscale, passando per la corruzione e le infrastrutture fatiscenti. Probabilmente un giorno cambierà cittadinanza, conscio che il nutrirsi di mozzarelle del Wisconsin vale più di cento green card.
IL MULTIETNICO. Tra A e B, trova un certo fascino nello scegliere C. Ha diversi tratti in comune con i due profili precedenti, spesso è un accampato con un gene dell’amor proprio funzionante, e non è acido quanto il convertito nei confronti della madrepatria, pur mancandogli pressoché del tutto la fierezza del patriota. Si sceglie spesso coinquilini di altre nazioni, dando significato al termine “internazionale”, e cerca di imparare qualcosa della loro cultura, cucina inclusa.
Le sue performance ai fornelli sono in genere, ma non sempre, modeste, e preferisce mangiare fuori: cinese, giapponese, vietnamita, thai, messicano o peruviano, comunque ristoranti di un Paese terzo, magari dove si mangia tanto e si spende poco, il che non guasta.
IL VERO GOURMET.
Coglie l’esperienza all’estero come l’occasione per conoscere a fondo una cultura gastronomica diversa da quella in cui è cresciuto. Già prima di partire si documenta sulle usanze alimentari del suo nuovo Paese, e non smetterà mai di farlo. Con la curiosità di un bambino, esplora i mercati locali, si cimenta con verdure e pesci mai visti prima, chiede consigli a chi è del posto. A volte si iscrive addirittura a un corso di cucina. Lontano letteralmente migliaia di chilometri dalla dispensa della mamma, allestisce con impegno e passione una cucina il più possibile locale e a chilometro zero, laddove possibile.
Spende cifre importanti per fare la spesa, ma è anche l’unico a sentirsi gratificato, a parte IL PATRIOTA che si imbatte nel marchio italiano e lo saluta come un vecchio amico incontrato per caso per le vie di Copenhagen. Dotato in genere di un contratto di lavoro e di apprezzabili disponibilità economiche, non perde l’occasione di visitare i ristoranti, alternando locali tipici a tavole gourmet di ispirazione internazionale, per non dire francese. Potrebbe acquistare una guida gastronomica, ma in genere si fida più di Internet.
E i cervelli in fuga dissaporiani, si riconoscono in qualcuna di queste categorie? O magari in un altro archetipo che ho tralasciato per brevità?
La discussione è aperta.
[Crediti | Link: Il Fatto Quotidiano, Dissapore, Facebook, immagine: Tobias Schult/Corbis]