Io. Non. So. Cucinare.
Se affetto il pane mi taglio le dita, esce bruciata qualunque cosa metto in forno, detengo il record di cottura sbagliata della pasta.
C’è solo una cosa che mi riesce bene, a parte guardare gli altri che cucinano sbevazzando birra, la sfoglia (vedi sotto).
Se io mi sono rapidamente adeguata rassegnata a quella che, evidentemente, è una tara genetica, mia madre no. Preoccupata che l’inettitudine ai fornelli condanni me alla singletudine perpetua e lei a non diventare nonna, ogni anno mi iscrive a 3 / 4 diversi corsi di cucina:
— macrobiotica
— neozelandese
— flexitariana
— gelateria vegana
— panificazione con il lievito di birra
Dunque, se non sono esperta di cucina, almeno con i corsi mi difendo. Ecco 3 cose veramente utili che ho imparato nella mia carriera di corsista seriale.
1. Se leggi etnico, scappa a gambe levate.
Nella lunga lista degli errori giovanili rifulgono i corsi di cucina dei paesi più improbabili, dalla Groenlandia alla Nuova Caledonia. Un numero di piatti tendente a infinito che mai sono riuscita a replicare. Perché gli ingredienti non erano reperibili (“ora prendete l’azeite de Dendi e unitela al tutto“), riprodurre le procedure era impossibile o entrambe le cose.
Se avessi qui e subito un bravo psicoanalista, o in alternativa un fiasco di vino, rievocherei i tentativi di preparare a casa gli uramaki (cilindretti di sushi) armata di stuoina e alga nori.
2. COME fare, non COSA fare.
Se il corso è reclamizzato con frasi sibilline tipo “Impara a preparare un pranzo […] ” o “Divertiti a cucinare una cena con noi […] “, beh, non iscrivetevi. La Champions League dell’improbabilità va a un corso che pretendeva di insegnarmi a cucinare un pranzo vegetariano di otto portate in un pomeriggio.
Vedendoli aprire i peperoni sottolio per l’antipasto ho avvertito un senso di disagio. Quando sono arrivate le cassette di zucchine “colte ieri da un contadino di fiducia” sudavo freddo malgrado fosse gennaio.
In definitiva: benedetta semplicità e i corsi basati sulle tecniche più che i piatti.
3. Il tempo conta più del prezzo.
Le insegnanti del più utile corso frequentato finora erano tre arzille sfogline bolognesi over 80, di quelle che “le guardi e vedi San Luca” (stretto gergo tecnico) cui devo i segreti della sfoglia perfetta. A Natale, mentre rimiro i miei tortellini, penso ai 25 euro spesi per 4 incontri, uno a settimana, l’investimento migliore della mia vita.
Dal che ho dedotto un paio di cose:
1) Non è il prezzo a 3 cifre che rende necessariamente migliore un corso di cucina.
2) Per imparare a fare qualcosa servono l’esercizio a casa e la possibilità di sottoporre eventuali dubbi all’insegnante. Alcune mattarellate sulle mani, anche.
Chi ha frequentato corsi di cucina parli ora o taccia per sempre. Per prima cosa quali e quanti. Poi migliori (chakra aperti e vite cambiate) e peggiori (“perché non sono rimasto a casa e ho ordinato una pizza da asporto?).
Condividete con noi le cose veramente utili che vi hanno insegnato, meglio ancora se strettamente di cucina (adesso sapete fare il pane, la pizza, il gelato, aprire le ostriche, bollire gli asparagi). Visto mai che imparo anche io?