Mettete di avere una ricetta in cui, fra gli ingredienti, compaia il riso. Così, nudo e crudo. Se siete (e so che lo siete) gente che si chiede come cucinare il riso, la domanda sarà scontata: quale devo usare? Certo, il titolo della ricetta potrebbe darvi una qualche indicazione. Sapreste subito cosa scegliere per un risotto, una minestra, un riso alla cantonese. O no?
Perché di riso ne esistono qualcosa come ottomila e più varietà. Appartengono a una sola famiglia che, se siete fanatici di Linneo, vi piacerà sapere si chiama Oryza Sativa. Due le sottospecie più coltivate e diffuse al mondo: Indica e Japonica, rispettivamente a chicco lungo e sottile, oppure corto e panciuto. Ma le varietà fra le quali scegliere la migliore per la ricetta che volete eseguire sono, ribadisco, più di ottomila! Certo, non posso parlarvi di tutte quante.
Ma, al momento, almeno sette sono nella mia dispensa. Ecco quali, come potete usarle e, all’occorrenza, sostituirle.
1. SUPERFINO
Arborio (nella foto). Carnaroli. Roma. Baldo. Tutto quello (o quasi, vedi punto 2) che usereste per fare un risotto appartiene alla categoria dei risi superfini. La definizione deriva dalla classificazione commerciale dei risi di varietà Japonica, i più diffusi dalle nostre parti.
Si parte con l’originario, con chicchi piccoli e tondi che via via diventano più grandi e affusolati passando a semifini, fini e, appunto, superfini, orgoglio dell’agroalimentare italiano. Più il riso è piccolo e tondo, più si adatta a minestre e dolci, più si assottiglia, più diventa l’ideale per il nostro risotto.
Perché le qualità migliori abbinano un’ottima tenuta di cottura con una cessione di amidi perfetta. Risultato: al dente ma cremoso.
Come sostituire, in questo classico della cucina italiana, il riso superfino? Risposta (mia): con un semifino, ma non uno qualunque. Quindi, passate al punto 2.
2. VIALONE NANO
Tipico del Veronese, è un semifino e il preferito da chi ama risotti morbidi, ma anche minestre suadenti come risi e bisi. Il suo chicco tondeggiante ha una buona tenuta, anche se richiede qualche attenzione in più rispetto a un Carnaroli perché scuoce velocemente.
Si rivela comunque elegante e ottimo nell’abbinamento con gli ingredienti più delicati, come per esempio carciofi, asparagi, crostacei o frutti di mare. Si sfalda abbastanza ed è perfetto anche per il riso alla pilota, in cui si lega alla salsiccia sbriciolata.
Nei piatti in brodo (non nei risotti), potete in caso sostituirlo con un Maratelli, un Rosa Marchetti, un Romeo. Oppure “scendete” di categoria e usate un classico originario, come il Balilla.
3. PARBOILED
Non una qualità ma un trattamento, di precottura, che può essere applicato a diversi tipi di riso. Il mio, nella fattispecie, è un fino Ribe. Si distingue subito per il colore ambrato e ha la caratteristica di non scuocere e non sfaldarsi.
Inadattissimo, perciò, a risotti, minestre, dolci, è invece l’ideale quando volete fare il pilaf, la paella, anche una tiella volendo, e – per chi la ama – un’insalata di riso: in tutti i casi, i chicchi resteranno ben sgranati, al dente senza risultare duri come invece accade, per esempio, a un Carnaroli cotto troppo poco (avete in mente i risotti ai matrimoni? No, non quelli stracotti, quelli che sembrano arrivare direttamente dal sagrato della chiesa).
Per gli appassionati di nutrizione, vale la pena segnalare che la precottura concentra i nutrienti all’interno del chicco: il parboiled risulta quindi un riso particolarmente ricco di micronutrienti e con un basso indice glicemico.
L’alternativa per un buon pilaf? Una varietà a chicco lungo come quelle dei punti 4 e 5.
4. LONG GRAIN
Cambiamo sottospecie per addentrarci nel mondo degli Indica, i classici orientali. Quello della foto è un Siam, prodotto in Thailandia ma, secondo me, molto indicato per fare il riso alla cantonese e, in genere, ottimo saltato con verdure, carne, crostacei e quant’altro.
Ricordate che tutte queste tipologie di riso, prima della cottura, devono essere sciacquate per lavare via l’amido in eccesso e ottenere chicchi sgranati, al dente, non appiccicosi. A meno che non vogliate proprio il riso “colloso”: in tal caso, vi rimando ai punti 6 (sushi, che però è un Japonica) e 7 (glutinoso).
Tornando al nostro long grain, sugli scaffali dei supermercati se ne trovano qualità “generiche” più che dignitose per divertirsi a cucinare orientale, compreso il curioso “long&wild” che mescola ai chicchi di riso quelli di un cereale nordamericano, chiamato riso selvaggio.
Ma in realtà di tutt’altra famiglia (Zizania), perfetto come accompagnamento a stufati e umidi di verdure, carne, pesce, anche ispirati alla cucina creola.
5. BASMATI
È un altro esempio di long grain, originario di India e Pakistan e caratterizzato, come tutti i suoi “cugini”, da una particolare fragranza, un profumo delicato e distintivo che vi permette di servirlo semplicemente bollito, accanto a piatti e intingoli elaborati.
Il metodo di cottura classico prevede che il riso, dopo il lavaggio, sia versato nel doppio del suo peso di acqua bollente e lasciato sobbollire coperto finché ha assorbito tutto il liquido.
Sopporta tranquillamente un breve riposo senza scuocere, tanto che io lo faccio nella cuociriso che, a cottura avvenuta, lo tiene in caldo finché non sono pronta con il resto del menu. Con questa tecnica potete cucinare tutti i long grain: un thai o un jasmine vi daranno grandi soddisfazioni anche semplicemente conditi con un filo di salsa di soia.
6. SUSHI
Qui torniamo alla sottospecie Japonica: il riso da sushi ha chicchi piccoli e tondeggianti e una preparazione peculiare. A cominciare dal lavaggio, da eseguire mettendo il riso in una bacinella sotto il filo dell’acqua corrente, smuovendolo spesso, finché l’acqua risulta limpida (ci vorranno una decina di minuti).
Ben sgrondato, mettetelo in casseruola con acqua fredda che lo superi di circa un dito. Coprite con un coperchio, portate a bollore, calcolate 10 minuti, spegnete e fate riposare per altri 10-15, senza scoprire: il riso terminerà di cuocere nel suo vapore riacquistando collosità.
A questo punto, conditelo con una spruzzata di aceto di riso bianco e una spolverata di zucchero e, se ci tenete, armatevi di santa pazienza e usatelo per maki e nigiri. Io preferisco versarlo in una ciotolina, spolverizzarlo di semi di sesamo e alghe in polvere e metterlo in tavola insieme a tartare e sashimi.
Volete una dritta? Fate tutto uguale con un Vialone nano: pare dia risultati più che discreti.
7. GLUTINOSO
Si tratta di una varietà di Indica particolarmente ricca di amido. Sia chiaro, non c’è traccia di glutine: il nome deriva dal latino, glutinosus, appiccicoso. I chicchi sono lunghi, lisci, quasi perlacei. L’ammollo può durare fino a 10 ore e la cottura tradizionale è a vapore, in appositi cestelli di bambù, per circa 30-40 minuti.
Potete usare un normale cestello o la vaporiera elettrica, rivestiti con un telo leggero per non fare precipitare al di sotto i chicchi e mantenerli avvolti nell’umidità, ma non a diretto contatto con le goccioline d’acqua.
Ho fatto esperimenti nella cuociriso e con la tecnica sushi, ma il vapore dà sicuramente il risultato migliore: vero sticky rice, super colloso, naturalmente dolce, buono come un pane fatto in casa. Certo, se vi piace il genere.
Altrimenti, tranquilli, potete farne a meno e concentrare i vostri esperimenti su una delle altre (ottomila e più) varietà.