Due notizie di questi giorni: la chiusura del McDonald’s in piazza San Babila a Milano e la morte di Elio Fiorucci, sembrano confermare che la teoria della sincronicità è roba seria. L’ha elaborata Carl Jung legandola a concetti come l’inconscio collettivo e le coincidenze significative.
Vabbè, confesso, sono argomenti di cui so nulla: ma che le cose non capitino mai (solo) per caso, in fondo, ne sono sempre stata convinta.
Il fast food, nato Burghy nel 1984, e il negozio (oggi si chiamerebbe concept store) del designer, proprio quell’anno “graffittato” da Keith Haring, erano a pochi passi uno dall’altro.
Mete di culto di noi, adolescenti della seconda metà degli anni Ottanta, in bilico fra l’essere gli ultimi sanbabilini con i mocassini a punta, i primi paninari (come qualcuno iniziava a chiamarci) in Moncler e Timberland o al contrario, con un ribaltone ante litteram, gli ultimi figli dei fiori, indosso la giacca da marinaio comprata al negozio dell’usato sui Navigli, ai piedi le cinesine, le ciabattine di panno che spopolavano fra le ragazze dei licei del centro.
Che fossi dall’una o dall’altra parte, eri comunque cresciuto a Grease e Happy Days e l’idea di poter mangiare hamburger e patatine, con la coca di ordinanza nel bicchierone di carta dotato di cannuccia, seduceva gli esponenti di qualunque ideologia.
Almeno, all’inizio. Prima che il cuore di Milano diventasse luogo d’elezione e feudo esclusivo dei cosiddetti “rampolli della Milano bene”, ovvero i paninari di cui sopra.
Che, per la cronaca, non si chiamavano così per via dell’alimentazione in stile Poldo di Braccio di Ferro. Ma perché il loro primo luogo di ritrovo era Il Panino di piazzetta Liberty, bar dove oggi ti servono camerieri in giacca bianca, forse gli stessi che trent’anni fa tenevano a bada le teste calde, in cerca di risse in cui sfogare ormoni e rabbie giovanili.
Cresciuti mordendo la vita e i primi francesini cotto, brie e salsa rosa, ai neo paninari non parve vero veder sbarcare, a due passi dal loro quartier generale, un locale in puro american style con tanto di odore di fritto e fumo di piastra.
Mentre questi giovani promettenti, futura classe dirigente meneghina, alimentavano i brufoli a furia di salse e milk shake e gettavano le basi per un futuro segnato da un precoce eccesso di grassi saturi, le loro ragazze impazzivano in cerca di gommine profumate e matitine colorate da Fiorucci, provandosi jeans così attillati che quelli delle loro figlie, le adolescenti di oggi, sembrano pantaloni da clown.
Qualche anno dopo, divenuti maggiorenni, quei giovani avrebbero portato le fidanzate a cena all’Oca Nera di via De Amicis, alla Briciola e al Giallo di via Solferino.
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Solo nelle occasioni più speciali da quello bravo in via Bonvesin de la Riva, Gualtiero Marchesi si chiamava.
Insomma, per farla breve, i gourmet meneghini cinquantenni di oggi si sono formati le papille gustative a suon di Cheeseburger, King Bacon e Chichen Doré, come io ho chiamato per diversi anni ancora i Chicken McNuggets targati McDonald’s, la catena che rilevò il locale una dozzina di anni dopo la prima apertura.
Mettendo, già allora, fine a un’epoca.
In cui, probabilmente, si mangiava male e ci si vestiva peggio. Però, avevamo sedici anni.
Addio Burghy. Addio Elio. È stato bello crescere con voi.
[Crediti | Link e immagini: Corriere]