Al successo della trasmissione e del suo interprete tatuato e fisicato, che a furia di interiora, lardo, assaggi voluttuosi, ammiccate in camera e coattismo buono si è conquistato un posto al sole nell’affollato panorama dei palinsesti televisivi a tema cibo. E in quello altrettanto affollato dei desideri erotici femminili. Ma questo non è il mio campo, abbiate pazienza.
Ormoni in subbuglio o no, non so voi, ma io la seconda edizione l’attendevo con una certa curiosità, nonostante l’aver subito passivamente una sequenza infinita di programmi televisivi ha avvicinato il mio entusiasmo per la cucina catodica a quello per un comizio sui pneumatici più performanti in condizioni di pioggia.
Alla fine, con Rubio si riaccende una prospettiva di leggero e divertente intrattenimento. Grazie al format “unto” e territoriale e al suo fare genuino, o televisivamente genuino se preferite, per darci un tono da cinismo scaltro e saputello.
Nel frattempo, tra una stagione e l’altra, chef Rubio ha concesso molte interviste in cui non sempre è apparso spigliato come in televisione. Ma ha trovato il tempo di dire cose definitive sulla cucina italiana, finire nella nostra gastrocrazia, metterci a dieta e di sottoporsi ai nostri assaggi lisergici. Insomma (pacca sulla spalla: mode on) quando avevamo pronosticato la forza del personaggio non ci avevamo visto male.
La trasmissione è ripartita da Bari, con un baffo in meno e sotto il segno delle conferme (fin troppe) con un puntata non incendiaria, dal minutaggio più ampio e dal ritmo meno esplosivo. Ma se dico che il montaggio è stato meno affilato, dopo aver criticato quello troppo concitato l’anno scorso, vinco il premio incoerenza 2014. Quindi taccio e non inserisco l’appunto nell’aldograssismo successivo.
Cose che confermano la bontà di e Unti e Bisunti.
Il racconto dello street food italiano è una miniera inesauribile. Non solo sotto il profilo didattico- gastronomico ma come ricognizione territoriale e umana. I volti e i luoghi, per quanto un minimo cannibalizzati dalle telecamere, restituiscono molto di quell’esperienza a volte sottovalutata chiamata Il viaggio in Italia. I dialetti, i borghi, la cucina di un tempo e il sapere antico hanno un fascino difficilmente sperperabile.
La scoperta di piatti tradizionali dimenticati o mai conosciuti. Bari da questo punto di vista è stato un grande inizio, tra assaggi di pesce crudo al mercato (‘N derre la lanze), tielle di riso, patate e cozze, braciole di cinghiale, pupizze e le ciole a cui è stata dedicata la sfida. Un tripudio per golosi senza sensi di colpa.
L’attrazione/repulsione per gli assaggi di Rubio. A leggere soprattutto Twitter l’Italia sembra un popolo affamato di budella di puledro e polpo crudo. Non sono certo sia esattamente così ma la reazione di disgusto o goduria all’atto ostentatamente pornografico con cui il nostro eroe affonda i denti nel fegato della seppia, o anche nel più generalmente amabile panzerotto alle cime di rapa fa la fortuna del programma.
Cose che cominciano a stancare
Il battibecco costruito con gli sfidanti e la dimensione “western” della gara è uno schema di scrittura che sta mostrando la corda. Come anche il momento intrusivo della ricerca degli ingredienti.
L’eccesso di frattaglie. Capisco che faccia molto uomo selvaggio ma possibile che dovunque vada Rubio le interiora sembrano essere la cifra dominante del mangiare di strada!
L’invasività dello sponsor: OK la birrozza del pescatore barese di mattina è plausibile, ma forse anche eccessiva, come usarla al posto del cappuccino, o come tavolo da gioco per la partiti a carte con gli autoctoni.
[Crediti | Link: dMax]