Ho preso una cotta per Lorenzo Cogo, chef del ristorante El Coq, stella della guida Michelin in quel di Marano Vicentino. Quando sul palchetto in mezzo a 30 tavoli, dall’alto di un paio di Vans rosso Ferrari, ha esordito con: “Benvenuti a infiùsion o infusiòn, come si dice in Veneto”, ho capito che avrei scritto una recensione spiaggiata.
Nomen omen, come dice lui: uno che si chiama Cogo di cognome non poteva che finire a fare il cuoco da Shannon Bennet al Vue de Mond di Melbourne o al The Fat Duck di Blumenthal. E fin qui ci siamo, ma che a 24 anni diventasse anche l’organizzatore di un evento come “Infusion” quello, il destino non l’aveva previsto.
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La prima cosa che ha dimostrato Cogo è che in Italia non c’è solo Milano.
La seconda è che in Veneto, soprattutto nella ridente arcinota pedemontana, gli “schei” ci sono ancora, malgrado la crisi.
La terza è che si possono raccontare queste terre con garbo, e senza cedere alla piaga regionale del campanilismo un po’ cieco e un po’ bigotto.
Leggere il parterre di chef che ha portato dentro alla lussuosa Fondazione Bisazza di Montecchio Maggiore costringeva qualsiasi gastrofanatico all’assunzione di sali:
Daniel Burns, Luksus, New York.
Thiago Flores, Paris Gastro, Rio de Janeiro.
Virgilio Martinez, Central, Lima.
Paco Morales, Noor, Cordoba.
Yoji Tokuyoshi, per 9 anni sous chef di Massimo Bottura.
Great team at work #infusion Thanks @lorenzocogo @VirgilioCentral @Pacomoraleschef @yojitokuyoshi @chefdburns pic.twitter.com/V8QrsaSaqN
— marco bolasco (@marcobolasco) 11 Febbraio 2015
Certo, la furbizia e’ stata quella di mettersi in coda a Identità Golose 2015, e di dirottare a Vicenza alcuni degli ospiti che erano già intervenuti a Milano. Però Infusion mi è sembrato un evento sinceramente internazionale nel senso in cui lo è l’Erasmus: amicizia tra chef e visite nei rispettivi Paesi con tanto di gita fuori porta a rimirare le bellezze dei Colli Berici.
Al tavolo numero 30, dov’ero seduta, c’erano stette persone sotto i 30 anni, assaggiatori amatoriali di cibo stellato che avevano colto l’occasione di avere a disposizione dodici mani benedette dalla Michelin alla ragionevole cifra di 100 euro.
Palati quasi privi di sovrastrutture, ancora capaci di dire “buono” invece che “bello”, e ancora capaci di lasciare un avanzo nel piatto. Dunque la gioventù gastronomica che l’evento voleva mettere in tavola si è estesa dalla cucina ai posti a sedere, e questa è un’altra vittoria.
Ogni chef ha preparato due piatti: uno a buffet per l’aperitivo, l’altro placé per la cena.
A vincere la sfida dell’aperitivo è stato secondo molto il padrone di casa, per l’approccio creativo della carne essiccata con spuma di Grana Padano riserva 24 mesi. La carne essiccata (di Rubia Gallega) era appetitosa come una patatina fritta, la spuma perfetta per consistenza e sapidità e la fettina di rapanello civettuola.
Secondo posto della mia classifica per la tartare di manzo su cracker di pepe di Bruns, ottima, un po’ sempliciotta; terzo posto al latte di cactus di Virgilio Martines che pure ha provocato qualche risentimento tra il pubblico per le dosi d’aglio ammazza vampiri.
La cozza con salsa bernaise e dragoncello di Paco Morales era da mangiare tutta d’un fiato, suggendo dalla valva, come un’ostrica, il che la rendeva un piatto smaliziato, con un forte sapore di mare.
Una piccola delusione per Tokuyoshi, in predicato di aprire il suo ristorante a Milano, che ha presentato un piatto ad alto tasso botturiano: il cacio e pepe croccante, dove il cacio era sotto forma di una nuvola, come quelle di granchio del ristorante cinese: ammaliante, ma non troppo saporito.
Thiago Flores aveva preparato una piovra con mate e lime, in cui l’erba mate in cenere; peccato, per i miei gusti, che ai tentacoli della piovra fossero state lasciate la pelle e le ventose.
@Pacomoraleschef grandissimo piatto! #infusion @lorenzocogo @elcoqristorante @paolo_parisi @VirgilioCentral pic.twitter.com/gCtO7xAGhs
— marco bolasco (@marcobolasco) 11 Febbraio 2015
A tavola invece ha vinto Paco Morales con il suo merluzzo, brodo di cocco e Farofa, così dolce e semplice che sembrava un piatto per bambini, perché a volte il criterio per capire la bontà di un piatto è chiedersi quanto ne mangeresti ancora.
Menzione d’onore anche per il brodo di pollo, rape e tuorlo d’uovo marinato di Daniel Burns complicato, acido e piccante nelle verdure, grasso e robusto nel brodo. Ho pensato che al Luksus, con una buona birra, nell’atmosfera intelligente e cannibale di Brooklyn, è il piatto perfetto.
Flores ha presentato mazamorra, foglie croccanti, maionese e lumache di mare, monocromatico e non troppo incisivo nel sapore. Mentre i piatti meno ficcanti sono stati la capasanta, psudocereali e argilla di Martinez e la pasta e fagioli di Tokuyoshi.
Cogo ama il gusto amaro, ma il suo piccione, verdure di campo e tartufo bianchetto “Toscobosco” lo era anche troppo, soprattutto perché è stato servito alla fine della cena, lì dove il palato si aspetta un gusto gentile.
Ma a Infusion contava anche lo stile, e da bravo padrone di casa si è tenuto l’ultimo posto, il più difficile.
[foto crediti: Daniele Bragagnolo]