Uff, che barba che noia.
Si scrive foodstagramming. E’ il fenomeno planetario di autobiografia del sé al ristorante. O per farla semplice: la mania compulsiva di fotografare qualunque cosa edibile transiti nel nostro campo visivo (non necessariamente nelle nostre bocche), instagrammarla ornandola con filtri preferibilmente vintage, e poi postarla sui social network.
Un piccolo romanzo narciso e immediato di cui abbiamo: parlato, riparlato e straparlato.
Soprattutto, abbiamo detto di come il foodstagramming sia un problema soprattutto al ristorante, tanto che ogni tanto a New York, o in qualsivoglia posto del mondo, salta su uno che vuole vietarlo. L’ultimo, il proprietario di un ristorante di Berlino, che ha la settimana scorsa ammoniva con un cartello appeso all’ingresso: “vietato postare su Instagram i nostri piatti”.
Dunque perché parlarne ancora? Oggi sulla “mania di postare quello che si mangia” e sulle “star della cucina che non ci stanno“, è tornata Repubblica. E chi siamo noi per chiamarci fuori, visto che abbiamo rimediato persino la citazione? (E’ la prima volta che qualcuno cita Dissapore per la “possibilità di lasciare commenti”).
Licia Granello ha chiesto sul tema l’opinione di alcuni chef nostrani.
Ci sono quelli che, come Niko Romito o la famiglia Santini, rispettivamente chef e proprietari degli stellatissimi Casareale a Castel di Sangro e Dal Pescatore a Canneto sull’Oglio, avevano in un primo tempo vietato le fotografie dei piatti nei loro ristoranti, ma poi ci ha ripensato.
Quelli come Mauro Uliassi, ristorante bistellato a Senigallia, che si “tormentano”. “Non avevo mai pensato alle foto come a un fatto negativo. Ma un giorno è venuto uno che si è messo a filmare di nascosto e ha pubblicato tutto su Facerbook, facendo commenti fuori luogo sulle persone che servivano in sala. Devo confessare che mi sono molto infastidito“.
Quelli come Ilario Vinciguerra, del ristorante omonimo a Galarate, secondo cui una foto con lo smartphone è una bella senz’anima.
E quelli come Giovanni Grasso, stella Michelin per La Credenza di San Maurizio Canavese, che invece approvano perché la condivisione di un’esperienza può essere utile ai ristoranti.
Insomma, una linea di massima non ci si trova. Così come tra i lettori. Spulciando i vecchi commenti ho trovato:
Epicurei:
“Io ci ho provato… ma dopo aver fotografato l’antipasto mi sono dimenticata l’iPhone e mi sono dedicata anima e cuore a godere del pasto! Più forte di me, a tavola ci si sta per godere del cibo e conservarlo nella memoria anziché tra gli scatti che dimentichiamo presto…”.
Disintossicati pentiti:
“Io ormai ho smesso. E’ come per i programmi TV di cucina: troppi, noiosi, ripetitivi e soprattutto inutili”.
Moderati:
“Come in tutte le cose, l’eccesso disturba, la cosa misurata no! Ho notato molti chef contenti di esser fotografati. Abbiamo sopportato per decenni che il vicino di tavolo fumasse una sigaretta dietro l’altra, possiamo sopportare anche un appassionato che fotografa una lombatina…”
Logici:
“Se si tratta SOLO di mangiare finiamola con queste menate dell’impiattamento e torniamo alle porzioni da osteria, sbattute dentro col mestolo e tanti saluti. Altrimenti, se continuiamo con la storia che anche l’occhio vuole la sua parte, ci si deve rassegnare che di una cosa bella uno possa volere il ricordo”.
Psicanalisti:
“Ricorrere alle foto per ricordare un pranzo è un po’ una degenerazione figlia della necessità di apparire, di certificare un momento, dello star system e del culto dell’immagine. Una visione un po’ onanistica della cucina, di tendenza all’isolamento, cioè il contrario del significato dello stare a tavola”
Vi siete riconosciuti?
Ma in definitiva, gli chef “in rivolta contro i piatti del web” (ah, i titolisti) hanno ragione sì o no?
[Crediti | Repubblica, link: Dissapore]