Al di là della secolare battaglia tra forma e contenuto, le manifestazioni più esteriori della cucina di un grande chef lascerà sempre freddo chiunque sia cresciuto a pizza, carbonare e abbacchio con patate. Chi ama semplicità e sapori definiti può anche essere molto curioso di provare l’alta cucina ma l’orpello, la maledetta splendida cornice, le foto leccate, il guizzo intellettuale, appaiono sempre ampollosi. E spesso ridicoli.
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Voglio dire: vado molto volentieri sino a Copenhagen per provare il Noma, però quando mi arriva la cozza senza cozza state certi che la perculata scatta in 6 nanosecondi. Figurarsi chi la copia senza arte o sapienza.
Insomma per le provocazioni mi prendo Marcel Duchamp, non Rene Redzepi con il look da Marion Cobretti (vedi “Cobra” con Sylvester Stallone).
Però mi adeguo al fatto che andiamo in questa direzione, tanto che tra le pagine del New York Times Pete Wells illustra con precisione anglosassone la deriva della camera cuisine, ovvero di tutto quel movimento per cui un piatto si deve ispirare a una fotografia o ambire a diventarne una.
E lo fa ponendo la questione in modo semplice quanto efficace: ma quando mi arriva in tavola un’ardita creazione pittorica e floreale dentro un oggetto di design, il piatto me lo devo mangiare o semplicemente fotografare?
Tra i motivi non squisitamente gastronomici di questa ossessione, il capo della critica gastronomica del Times rintraccia giustamente quello tecnologico: l’immediata accessibilità di fotocamere digitali di alto livello (o più semplicemente di smartphone e profili instagram) permette a chiunque di trasformare il proprio ristorante, bistrot o perfino bar in un set fotografico, diversamente da un tempo in cui era necessario disporre di professionisti e macchinari costosi.
Con l’ovvio risultato che tutti copiano influenzano tutti, con cuochi alle prime armi che scimmiottano Adrià o lo stile nordico e discernere diventa più difficile. Almeno fino a quando non arrivano piatti che in bocca hanno il sapore del disastro.
Ma soprattutto la cucina sembra orientata direttamente alla sua diffusione social, con pasticcieri che ricercano l’innovativo #cronut che diventi trend topic su Twitter o aspiranti chef che uniscono suggestioni e ingredienti con l’unico scopo di creare qualcosa di visivamente stimolante. Anche brutto, ma che faccia parlare di se.
Non guardiamo però queste “creazioni” come ridicola esasperazione di una modernità in corto circuito, sentendoci superiori. O meglio, non pensiamo che in Italia la nostra sana quota di concretezza ci impedisca gli eccessi esibizionisti di tanta nuova cucina vuota e manierista, che la si chiami camera cousine o no. Una cucina che mi pare troppo spesso abdicare alla vera sperimentazione preferendogli l’abbraccio caldo e ruffiano dell’esteriorità fine a se stessa.
Magari saccheggiando a mani basse i profili Instagram di Rene Redzepi e Massimo Bottura senza capire la sostanza dei piatti copiati (guardate le immagini di questo post, non vi sembra di aver visto l’estetica dei piatti di Redzepi e Bottura in qualche ristorante stellato italiano se ci siete stati di recente?).
Ma fino a quando continueremo a brutalizzare la discussione in due posizioni ideologiche (mangiata di gusto in trattoria vs. cena elegante e ambiziosa allo stellato) non coglieremo mai a pieno la questione e ognuno rimarrà trincerato sulle proprie posizioni. Finendo per diventare indulgenti anche verso le derive più dannose.
Sì, indulgenti. Perché io vorrei poter dire che la baguette colorata al nero di seppia per rievocare chissà quale mollusco striato mi pare una cagata pazzesca (cit.) senza venir iscritto a nessun partito. Tranne che a quello del libero pensiero e della facoltà critica.
O è un’ambizione spropositata e ci tocca, anche qui, rimanere tifosi per tutta la vita?
[Crediti | Link e immagini: New York Times, Instagram]