Da ieri sappiamo che per Davide Scabin, telechef prediletto da Antonella Clerici per gli attributi in cucina, confermati dal suo ristorante, il Combal Zero di Rivoli (Torino), la critica gastronomica è poco unita e dovrebbe imparare l’arte della coesione dagli chef. Un’idea sbagliata, vecchia, che mi genera sgomento e rabbia. E un po’ di noia.
Soprattutto mi rimanda alla mia seconda vita, quella cinematografica, e mi ricorda tremendamente il regista italiano medio, con mal riposte ambizioni artistiche, che di fronte ai fischi della stampa, alla proiezione del proprio film, al festival di turno (solitamente a Venezia), lancia i suoi strali contro la critica e mai verso il proprio operato.
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Non è questo il caso. Se fosse un regista Scabin sarebbe Paolo Sorrentino, e per qualcuno che aggrotta il sopracciglio, troverebbe la maggior parte a plaudire il suo operato; quello che anima lo chef torinese è un’esigenza di coesione nazionale. Giusta, ma indirizzata sui soggetti sbagliati: i critici.
Purtroppo, l’ipotesi narcisistica l’accoglierei molto meglio. Della serie, lo so (anche se non lo capisco) che il più intimo desiderio di chi produce qualcosa di artistico, artigianale, gastronomico, o comunque personale, è la legittimazione universale, l’abbraccio plebiscitario; il tributo alla sua grandezza. Ma quando si passa dalle intemperie dell’ego alla reprimenda corporativa, si finisce nel solito desiderio di una critica asservita e spogliata del suo nome.
Come interpretare altrimenti un passaggio come
“Il futuro della cucina italiana e degli chef è in mano alla critica. Se si riuscisse ad avere una visione dall’alto e d’insieme si potrebbe costruire un’identità utile ad esportare il nostro brand/paese all’estero”.
O anche, e soprattutto:
“Qui continuiamo ad avere il nostro problema di campanili, dove litighiamo tra noi per difendere singole realtà, quando è l’Italia intera che andrebbe comunicata”.
Ma di quali campanili si parla? Un critico racconta, interpreta e giudica quello che vede e che mangia. L’idea stessa che porti acqua al mulino di un campanile veicola una connivenza. Che Scabin fa bene a mettere al bando. Ma non se la vuole sostituire con un servizio all’intero settore nazionale.
Lungi dall’essere originale, quella di Scabin è la solita messa italiana del lamentare l’assenza di coesione nel movimento. Quale esso sia. Per fortuna manca la variante tipica dello sdegno per mancanza di strumenti sufficienti a maneggiare il campo specifico; la vecchia storia che per recensire Frank Zappa devi comporre come lui, per comprendere la cucina di Scabin, appunto, devi saper rifare i suoi piatti o per scrivere di Valentino Rossi devi sapere sorpassare il Ferrari in staccata, a freni bloccati. Ok, mi fermo, sono stato ampiamente chiaro e ridondante.
La cosa che più turba è che in nome di un movimento, un settore, un’industria, uno sport, una nazione, o anche del destino dell’umanità (per cavalcare l’iperbole), ci si senta in dovere di suggerire, di soppesare, equilibrare, smussare un’attività, quella intellettuale, già vessata e mortificata in ogni direzione. Auspicare una critica che sia accorta, attenta a non fare danni e a non esprimere severità è disfunzionale; gridarlo ai quattro venti è decisamente arrogante.
Ma forse sono io a non averlo capito bene e aver male interpretato ben più alte intenzioni: mi spieghi, Davide Scabin, perchè mentre assaggio un piatto, valuto un menù, un evento, devo pensare al sistema Italia, piuttosto che a svolgere la mia funzione interpretativa. Sempre ammesso che questa esista ancora, si intenda.
[Crediti | Link: Dissapore, Immagine: Jacopo Emiliani]