L’ora dei cappelletti s’avvicina. Altro che pizza con i tortellini, altro che junk food. L’articolo che avrei voluto scrivere quest’anno, lo ha pubblicato il giornalista americano David Rosengarten sul sito di Forbes. Senza il problema e la paura di apparire schierato, interessato o soggettivo o compiacente, ha redatto un longform di quasi 30.000 battute a supporto della sua tesi sulla supremazia gastronomica dell’Emilia Romagna rispetto a tutte le altre regioni italiane.
La tesi di Rosengarten sembra essere condivisa anche dagli stessi italiani i quali, secondo un sondaggio approssimativo condotto dall’autore presso i suoi amici, alla domanda “dove si mangia meglio in Italia”, rispondono coesi: “Emilia Romagna”.
Qualche minoranza dirà Piemonte, e nessuno risponderà Toscana. Che invece risulta essere la regione gastronomicamente preferita dagli Americani, forse ancora nella scia del successo di libro e film Under The Tuscan Sun.
Fresco di rientro da un viaggio in Italia attraverso la Toscana, la Sicilia e l’Emilia Romagna, Rosengarten non ha dubbi: nella sua personale classifica dei pasti migliori, la maggior parte ha avuto luogo in Emilia Romagna.
E nel suo smisurato e minuzioso reportage, spiega di aver scovato l’anima e la bellezza di questa regione non tanto e non solo nelle città principali (Bologna, Modena, Parma e via dicendo) ma soprattutto nelle campagne e nei paesi di provincia.
La supremazia gastronomica emiliano-romagnola, non si gioca nella grandiosità di prodotti come il Parmigiano Reggiano, l’Aceto Balsamico Tradizionale o i meravigliosi salumi (ogni regione ha il proprio serbatoio di materie prime speciali, constata Rosengarten), piuttosto nella vera e propria cucina regionale: ha il potere della tradizione eseguita in maniera netta e sapiente o, quando diventa creativa, si appoggia serena sull’inossidabile presenza dei grandi prodotti.
Non meno importante, l’indole degli emiliano-romagnoli e la loro abitudine a cucinare piatti ipercalorici, senza preoccuparsene troppo.
Una resistenza al salutismo e alla dietomania che trova casa in queste terre ribelli e graniticamente aggrappate alle proprie tradizioni.
Il Nirvana di Rosengarten, lo si intuisce alla lettura, sono i tortellini in brodo (per una corretta classificazione del tortellino emiliano consultate la nostra piccola Treccani). Ma anche la semplicità di un gnocco fritto lo riesce a spiazzare. Per non parlare dell’ode al Lambrusco con cui ci intrattiene in coda al suo articolo.
Nell’elenco dei nomi che concorrono alla rivelazione gastronomica emiliano-romagnola ci sono trattorie di paese, ristoranti fanè e piatti popolari. Non ci sono stelle, avanguardie d’importazione, facili entusiasmi o ideologie alla moda.
Accende il suo riflettore sulla cucina di chi cucina da sempre e da sempre se ne sta in quel territorio a far quello che sa fare meglio.
C’è solo una cosa che non mi convince nel racconto di Rosengarten: manca la Romagna.
Nel suo viaggio si è concentrato sull’Emilia, in particolare nella zona di Modena con una rotta abbastanza nota ai turisti (forse meno agli italiani), mentre mancano esperienze che renderebbero ancor più inconfutabile la sua tesi: l’entroterra romagnolo, il Delta del Po, l’Adriatico e la riviera.
Deve ritornare Signor Rosengarten, e scoprire una regione gastronomica che ha la sua grande bellezza proprio nei posti più reconditi, quelli da conquistarsi.
E se la fa tanto sorridere l’idea che la cotoletta alla bolognese abbia la forma di una grande bocca, si immagini quando cercheranno di spiegarle la differenza tra tortellino e cappelletto…
[Crediti | Link: Dissapore, Forbes, Il Fatto Quotidiano]