Osteria è una parola importante. La scrivi e partono le evocazioni. Che siano volontarie o involontarie, retoriche o romantiche è irrilevante. Nel linguaggio gastronomico è sufficiente menzionarla per dischiudere un mondo intero e molti di noi si sentono subito a casa fischiettando Guccini tra “vini veri”, cibi semplici e tradizionali, spuntini fuori tempo massimo e tante storie rinchiuse tra i tavoli. Lo sanno quelli di SlowFood che escono oggi con Osterie d’Italia 2013, con un mese di anticipo sulla consuetudine.
Ma cos’è un’osteria oggi? Se non è un’espressione paracula come il “vino libero” di Oscar Farinetti (Eataly), la sua buona dose di marketing la contiene. E questa idea che la sua frequentazione sia un atto di resistenza –la stampa.it titola L’Italia che resiste (e cambia) si ritrova ancora nelle osterie— qualche prurito polemico me lo regala. Voglio dire, entriamo in questi posti e prepariamoci a godere; ammantiamoci di quella bella sensazione preziosamente tradizionale, liberiamoci dal fighettume gastronomico più deteriore e dall’ossessione salutista, però freniamo l’appartenenza politico-culturale.
Si va in un’osteria perché se ne sposa il clima e la proposta culinaria, non per risollevare le sorti del riformismo all’amatriciana. Non trasformiamo anche la presenza della tovaglia a quadri in un elemento di centrale importanza, altrimenti finiamo per incoraggiare il Virzì di turno, che nel film Tutta la vita davanti fa dire al sindacalista Valerio Mastandrea che le manifestazioni di una volta erano belle perché c’era l’odore di panino con la mortadella.
Lasciamo invece perdere l’oziosa querelle terminologica, visto che, se volessimo applicare una definizione ristretta al concetto di osteria, la gran parte dei locali citati nella guida di Slow Food non ne avrebbero legittimità. Invece se le 1713 segnalazioni hanno un valore d’identificazione con l’idea che: “Se il mondo è sempre più ansiogeno, almeno a tavola la gente cerca accoglienza, autenticità e rispetto del territorio, oltre a un rapporto corretto tra qualità e prezzo” allora ci siamo. Sul prezzo però il tetto della guida è sempre di 35 euro, ma c’è chi ne lamenta i frequenti sconfinamenti. Specie dei furbi che si nascondono dietro a una sedia di paglia per poi presentare un conto esagerato. E comunque non è poco, certo, dipende da cosa si ingurgita e la sovralimentazione è innegabilmente un must della domanda e della proposta.
Minori le lamentele sulla qualità delle segnalazioni invece. Nel mio piccolo (ma capiente) mi sembra di potermi accodare sulla bontà delle selezioni.
Però bisogna capirci meglio sulla proposta. Per dire, le polpette di bollito di melanzane Da Cesare, a Roma, in via del Casaletto che vedo fotografate su questo blog, impiattate così, a me non veicolano l’idea dell’osteria con cui sono cresciuto. Insomma spero di non trovarle da Felice a Testaccio per intenderci, dove 20 anni fa ci vedevo sempre Benigni (chissà se ci va ancora). Magari sono superlative però dammelo un piatto normale. O me lo devo portare da casa?
E la pizza? Che ci azzera (cit.)? Voglio dire, tolto il fatto che il mio rapporto con la pizza non è dissimile da quello delle infanti per le canterine “Tagliatelle di Nonna Pina” e che la assumerei anche per endovena o al posto del caffè, l’inserto della guida “Fermenti romani” non sposta troppo l’ago della bilancia? Forse no. E alcuni wine-bar invece possono starci o sono dall’altro lato della barricata?
Ah, non ho un iPad o un iPhone, ma l’app mi si dice essere altamente cool. Confermate?
[Crediti | Link: Intravino, La Stampa, Scatti di Gusto, immagine: Flickr/EsseQu_Freelance_Photographer]