Giuseppino, l’autobiografia di Joe Bastianich scritta per Utet da Sara Porro (non minimizziamo, la nostra bravissima Sara Porro, pur bullandoci che noi certe cose, puah, mai e poi mai, ancora un po’ e ci scappa la lacrimuccia), ha vinto ieri a Pontremoli la decima edizione del premio Bancarella della Cucina 2015. Battuti gli altri 5 agguerriti finalisti: Paolo Marchi (“XXL, 50 piatti che hanno allargato la mia vita” Mondadori), Alberto Capatti (“Storia della cucina italiana” Guido Tommasi), Roberta Schira (“Mangiato bene” Salani), Chef Rubio (“Unti e bisunti” Sperling&Kupfer), Alessandro Marzo Magno (“Il genio del gusto” Garzanti).
Dall’alto del nostro nuovo status di vicini di banco della capoclasse è impossibile resistere al demone febbrile di ripubblicare la recensione di Giuseppino, scritta da Adriano Aiello poco meno di un anno fa a libro non ancora arrivato in libreria.
Applausi a spellamano, Sara, ci hai reso orgogliosi di te e della tua promettente carriera di scrittrice.
Preparate cannoni e indignazione: Sara Porro è un editor di Dissapore, anche io sono un editor di Dissapore. Sara Porro è una mia amica, io recensisco Giuseppino, il suo libro, scritto con e su Joe Bastianich, su Dissapore.
Per tutti quelli in grado di superare questo indicibile scoglio, frutto di una società malata, un mondo livido e sporco e una realtà corrotta e corporativa, seguono alcune mie considerazione e soprattutto, visto che non siamo in un sito di critica letteraria, una lista di cose interessanti che ho scoperto tra le pagine di Giuseppino.
Giuseppino si apre con un episodio divertente: Bastianich, ancora ignaro dell’esistenza fisica di Sara Porro (quella virtuale era garantita dal nostro liveblog di Masterchef), rimane chiuso nell’ascensore che lo porta a casa dove è in corso la festicciola di fine produzione e dove lei ed altri lo attendono. In una situazione che garantirebbe panico, sudorazione e bestemmie alla maggior parte delle persone, Joe mostra ironia, semplicità e ottime doti di padrone di casa.
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Sarà stato il trauma adolescenziale dell’aver rotto inavvertitamente una bottiglia di 9 litri di Barolo dei Vietti a fortificarlo?
Per un momento mi chiedo se sia un fatto realmente accaduto o una riuscita strategia letteraria (sicuramente preferisco pensare sia più vero dell’immagine rapidamente successiva, quella in cui le donne “lanciano le mutande a Bastianich”); poi capisco che mi sto ponendo una domanda sbagliata. Vero o no, non ha affatto importanza, quello che capisci è che il libro si legge facile. Ed è sempre una buona notizia.
Si entra nel vivo e Sara è costretta a tirarsi fuori dall’equazione, farsi biografa. Le riesce bene e per chi la conosce non è una considerazione di poco conto: Sara ama decisamente il proscenio.
Sin dall’inizio la storia di Bastianich parla da sola. Va semplicemente assecondata. La sua vita, e soprattutto quella della sua famiglia, sono un perfetto racconto hollywoodiano sul sogno americano: un rise and fall, ma senza caduta: la separazione dell’Istria, la fuga dal regime comunista di Tito, il rifiuto di Vittorio di fare il minatore un Belgio – dove nel 1956 ci fu il tragico incendio della miniera Bois du Cazier – il trasferimento alla cieca a New York, lo spaesamento, l’inserimento e il successo nella ristorazione.
Fornito un quadro generale del mood letterario faccio come Sara, elimino dall’equazione la mia ridondanza semantica e lascio lo spazio agli elementi più curiosi e interessanti, non dopo aver citato la migliore chiosa del libro:
“La televisione è come il terzo bicchiere di vino: ti fa somigliare più a te stesso”.
HIPSTER
Non bisogna scorrere tante pagine per incorrere nel termine più dominante dell’ultimo lustro. Cosa hanno fatto stavolta? Quello che gli riesce meglio naturalmente: essere interpreti della riqualificazione di di Astoria, dove Joe si è trasferito, dopo i primi anni nel New Jersey. “Era un quartiere pieno di immigrati. All’epoca gli istriani erano gli ultimi arrivati insieme ai greci… Seguirono gli albanesi. Più tardi, negli anni ’8o e ’90, sarebbe stato il turno di cinesi e coreani, insieme a domenicani ed ecuadoregni… Oggi è un quartiere hipster, pieno di ristorantini e boutique.
GARLIC KNOTS
A pag. 59 si scorge la prima forma di fanatismo gastronomico, che non poteva non inglobare la pizza. Mi spiego: Lidia Bastianich, nonostante sia andata al college, sceglie di lavorare per Pete’s Pizza, istituzione del periodo. Lì furono inventati i Garlic Knots: “nastri di impasto della pizza legati in un nodo, cotti in forno e ricoperti di burro fuso, aglio e prezzemolo tritato”. Temo che qualcuno li stia ancora digerendo.
DELLA SUPREMAZIA DEL RADICCHIO
Elogi che non ti aspetti: “non è possibile sovrastimare l’importanza del radicchio nella vita della mia famiglia”. Quello triestino era alimento centrale della dieta dei Bastianich, tanto che arrivati in America lo piantano nel giardino e il nonno costruisce addirittura una rudimentale serra per garantirne un utilizzo almeno da aprile a novembre.
I SAPORI FORTI AL BUONAVIA
Quando affronta la cucina italo-americana, la creazione della Parmesana, della Piccata o degli Spaghetti with Meatballs, o i dolci ipercalorici, Bastianich fornisce un’interessante interpretazione degli eccessi della cucina americana. L’uso dei sapori forti e l’accumulo di ingredienti hanno un duplice valore: dimenticarsi la distanza della pietanza dall’originale e contemporaneamente omaggiare il benessere economico. Solo così il sugo napoletano della domenica può diventare la Sunday Sauce, un tripudio di braciole e salsicce che veicolasse abbondanza. L’entusiasmo che veicolano queste ricette sono la chiave del successo del loro primo ristorante, Buonavia.
58MA STRADA
Evocarla ha un evidente valore cinematografico ma a cavallo tra ’70 e ’80 rappresentò una rivoluzione gastronomica, tutta italocentrica. I prodotti di qualità cominciano ad arrivare (era nato Dean & De Luca, poi Foodshow, ispirato a Peck, ma troppo avanti con i tempi), come anche i cuochi. Aprono decine di ristoranti, tra cui Felidia, in cui i Bastianich scommettono tutto. Sbancando, come sappiamo.
ITALIA
A 22 anni Bastianich fugge dalla Wall Street di Scorsese e DiCaprio, dai soldi e dall’ingranaggio statunitense e va a Trieste, poi nelle Langhe, poi ancora a Milano, a Montalcino, in Sicilia. Le sue riflessioni sull’Italia hanno quel pragmatismo centrato americano e lo sguardo nostalgico di chi però è originario di qui. C’è anche un passaggio molto significativo su cosa significhi fare apprendistato qui o in Usa, ma soprattutto a leggerlo si ha un po’ d’invidia per le esperienze fatte nei salotti colti della nostra gastronomia: da Gaja, Ceretto, Peck, Colombini, Miceli. “Girovagavo per l’Italia senza meta, bevevo vino, dormivo in auto, fumavo le canne: una vita da hippie. Eppure il mio lato capitalista era sempre lì”.
ITALIA 2
“Alle 9 sono l’unica persona sul set di Masterchef. Non ci sono ancora nemmeno gli operatori. La gente arriva alla spicciolata e comincia quella che io chiamo the italian morning hour: tutti si salutano, si baciano sulle guance, bevono un caffè, fumano una sigaretta chiacchierano. La giornata di lavoro non comincia mai prima delle 10.30. In America se uno dei giudici arriva in ritardo paga una multa di mille dollari, destinati in beneficienza: far aspettare gli altri è considerato un atteggiamento inaccettabile. In Italia, al contrario, il ritardo è un modo per affermare la gerarchia di branco: il più importante arriva per ultimo. La cosa mi esaspera”.
MASTERCHEF
“Prima di Cracco, altri grandi chef erano stati vagliati e poi scartati. Negli anni seguenti si sono tutti affrettati a sostenere che mai e poi mai avrebbero accettato quel ruolo e che MasterChef è un programma pessimo. Mentono tutti. La sola, notevole eccezione è Massimo Bottura”.
CRACCO
“Per quelli della sua generazione la cucina è una cosa dura, che richiede impegno totale e che non prevede divertimento. A questi principi unisce un umore volatile e molto hot & cold, perciò alterna buonumore e relativa bonomia a tensione parossistica e mutismo pressochè totale – tutto questo sul set dove giri”.
[Crediti | Link: Il dito nel piatto, Dissapore, immagine di copertina: Vanity Fair]