La citazione del titolo suona malinconica? Non prendetevela con Dissapore. Improntato a un senso di malinconia, da occasione persa, è il parere appena espresso dal Ministero dello sviluppo economico sui cosiddetti home restaurant, fenomeno diffuso in Italia come una macchia d’olio su una preziosa tovaglia di lino, grazie all’intuizione di pochi e al passaparola di molti, attraverso i social network.
Stiamo parlando di quell’attività, nota anche come social eating, che trasforma casa propria in un ristorante pop up dove ospitare, a pagamento s’intende, perfetti sconosciuti che, invece di andare in questo o quel locale, scelgono un appartamento privato e una cucina domestica per una serata conviviale alternativa alle solite.
Attività talmente diffusa da avere già diversi punti di riferimento, come Gnammo, una comunità dove sgomitano 1.055 cuochi capace di realizzare 500 eventi, Ceneromane, per chi bazzica intorno alla Capitale, ma pure KitchenParty.org, e New Gusto, ognuna con un taglio e un target ben definito.
Tra le ragioni del successo il periodo di crisi economica, il fascino dell’inedito, soprattutto il vuoto legislativo che tanti mal di pancia procura ai ristoratori “tradizionali”, strapazzati da un’infinità di tasse e contributi.
Invece per aprire un home restaurant non servono licenze di nessun genere, nessuna autorizzazione sanitaria, la burocrazia è ridotta al minimo e la classificazione di semplice attività lavorativa occasionale, consente di fatturare fino a 5000 mila euro lordi senza Partita IVA.
Questo almeno sino a oggi.
Ma, addio sogni di gloria, il parere espresso dal Ministero dello sviluppo economico annuncia un’inversione di rotta a 360 gradi.
“L’attività in questione anche se esercitata in alcuni giorni e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela”.
In altre parole, secondo il Ministero, le norme applicabili ai soggetti che esercitano un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, cioè i ristoratori, devono valere anche per i nuovi imprenditori degli home restaurant.
Non a caso precisa il Ministero:
“La fornitura di queste prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo e quindi, anche con l’innovativa modalità, l’attività in questione si esplica come attività economica in senso proprio“.
Cosa succederà ora?
Va da sé che Fipe, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi, auspica che i comuni recepiscano l’autorevole parere del Ministero, e si attivino per fare controlli adeguati, il ché significa accertamenti da parte della Pubblica Sicurezza nella case dove si pratica social eating sul possesso dei requisiti.
Insomma, sembra spegnersi senza troppa gloria il piccolo grande sogno di molti ristoratori amatoriali italiani.
Giusto così? Il principio “stesso mercato, stesse regole” deve valere per tutti? Oppure anche in questo lungo periodo di crisi lo stato italiano pensa soprattutto a reclamare la propria parte soffocano le attività di impresa?
[Crediti | Link: Wine News, Dissapore, Gambero Rosso]