Burro sì, burro no, burro forse. Burro nel pesto, burro per la cotoletta, burro pigliatutto. È che siamo gente semplice e ci basta qualche colpo di marketing ben assestato per trasformare quello che sembrava il male gastronomico assoluto, in un superfood che ora pare addirittura poter salvare la vita.
Ricapitoliamo: in principio ci fu la demonizzazione. Come oggi accade, con campane dissonanti, per l’olio di palma che “mamma li turchi”, qualche decennio fa succedeva negli USA con il burro.
Brutto, sporco e cattivo, era diventato il capro espiatorio dell’obesità, l’alimento da cui stare più lontani possibile. “Fa ingrassare, fa male al fegato, è un grasso animale e i grassi animali sono orribili nefandezze dell’industria alimentare, e poi il colesterolo!”, dicevano le massaie americane in coda al supermarket con il carrello pieno di “macaroni cheese” per il microonde.
E allora che succede? Che gli americani per primi e noi dietro come bravi polli in batteria cerchiamo di farci del bene se non eliminando il burro dalla spesa, almeno riducendone i consumi all’osso.
Nel frattempo, gli chef di tutto il pianeta continuano a ridacchiare sotto i baffi e a riempirci il piatto di burro sotto diverse forme. Per citarne un paio, Scabin ce lo propina nella sua cotoletta, mentre Oldani ne infarcisce il pesto. Il risultato è che il burro resiste all’attacco trasversale dei media, se ne frega delle malelingue e degli studi pseudi-scientifici che lo dichiarano malefico e medita la sua silenziosa rivincita.
Dissapore, in tempi non certo sospetti, stava dalla parte del burro senza vergognarsene, ma intanto qualcuno continuava a tessere le lodi dell’olio di oliva e a guardare con aria di sufficienza gli estimatori del grasso animale. [related_posts]
Poi accade l’impensabile: la giornalista Tina Teicholz pubblica il libro “The big flat surprise” che fa aprire gli occhi ai più sulle questioni del mercato che detta le sue regole, non sempre veicolando le informazioni eticamente. Scatta l’epopea del revisionismo.
Saltano tutti sul carro del nuovo eroe, presto vincitore: si scopre che il burro contiene delle vitamine che ci fanno bene (quindi “il burro fa bene”), il Time gli dedica una copertina lo scorso giugno lanciando una controffensiva culinaria (quindi “il burro è trendy”), giunge addirittura alle nostre orecchie che nella battaglia delle calorie burro batte olio (il burro fa “più dimagrire” dell’olio).
Sono stordita: un contropiede fulmineo e l’olio ne esce male.
Basito, il popolo-consumatore cerca le sue nuove certezze, e qui (taaac) arriva di nuovo il marketing. Durante l’ultima edizione di Tuttofood a Milano, il Gruppo Brazzale (che produce burro) organizza un incontro pro-burro. Il colpo è fatale: come in tutte le controculture in fase embrionale, si stila un decalogo sviolinante sull’alimento che è in odore di santificazione.
Il baldanzoso manifesto pro-burro, stilato da un’azienda che produce burro, recita così:
1. il burro è un alimento naturale (si trova in natura)
2. il burro è un alimento sano, digeribile e prezioso per la salute
3. nel burro c’è la parte più pregevole del latte
4. il burro non fa aumentare il colesterolo
5. il burro contiene le vitamine A, D, K, E
6. il burro ha un apporto calorico contenuto
7. il burro dà rapidamente un senso di sazietà
8. la paura del burro è scientificamente infondata
9. il burro è conveniente, rappresenta un uso intelligente del denaro
10. il burro è fonte di piacere e salute
Dal manifesto alla beatificazione il passo è breve, piovono osannanti crostini al burro sul pubblico non pagante.
Senza voler fare la parte del Report di turno, pare facile cavalcare l’onda del burro rivalutato quando produci burro. Ora, il burro di certo è buono e di certo non fa male se consumato in dosi umane, attenti però a non farvi fregare dal marketing.
[Crediti | Link: Il Sole24Ore, Dissapore]