Colonizzazioni al contrario. Gli americani continuano a invadere Londra. Non poteva mancare l’hamburger di Shake Shack, la catena di New York capace di compiere il miracolo alla Grom: essere global e gastrofighetta allo stesso tempo.
Un’ attesa spasmodica, stile concerto degli One Direction, per un marchio (già presente in Medio Oriente e Turchia) capace di issarsi, secondo qualcuno, tra le 20 esperienze foodie del viaggio ideale, e di eclissare Five Guys Burger and Fries, altro format d’importazione dall’appeal minore, ma con vent’anni nelle gambe.
Shake Shack ha deciso di far le cose in grande piazzando uno stuolo di tavolini e le sue griglie all’interno del mercato di Covent Garden (Market Building, uno dei maggiori punti di passaggio turistico della capitale londinese).
Per rinverdire la sua fama di burger gourmet – e arruffianarsi Sua Maestà – ha deciso di utilizzare carne Scottish Aberdeen Angus, salsicce Cumberland Sausage e pure il cioccolato del famoso maestro, locale, Paul A Young, oltre ai biscotti della St. John Bakery per preparare i dessert del ricco menù.
Si ordina nel piccolo store aspettando il proprio turno all’esterno, dopo aver pagato si viene dotati di trasmettitore vibrante che avvisa al momento del ritiro. Ormai è il metodo imperante. Meno consona invece la presenza di alcuni biscotti per cani!
Tra i cinque panini e quattro hot dog selezionabili ordiniamo uno SmokeShack (cheesburger con bacon affumicato del Wiltshire, pepe e salsa-shack) e un classico Shackburger (cheeseburger con insalata, pomodoro e salsa).
Il range dei prezzi varia da 4,75£ a 9£ insieme alla patatine fritte, sia semplici che con il formaggio (2,50£ o 3,50£). Nella lista delle bevande, rigorosamente brandizzate, spiccano la Limonata Shack-made o i vini Shack wine. Ci buttiamo su una Shackmeister Ale (3£ la mezza, 4,50£ la pinta), birra prodotta dalla Brooklyn Brewery. Buona, pare un artigianale.
Nonostante la folla calcistica troviamo posto in una saletta riparata, salvifica per chi non ama i tavoli all’aperto e i loro piccioni. La sala è arredata sobriamente con panche e tavoli realizzati usando i legni di una pista da bowling di Brooklyn (la sensazione di autoparodia prende piega…) la cui vista è mitigata dai numerosi dispenser gratuiti delle salse dove ci si può sfogare riempendo ciotoline di ketchup e maionese.
Il servizio è veloce e preciso; il risultato deludente.
Il pane è dolce e molliccio, mentre la carne è un filo troppo cotta (non chiedono il grado di cottura) e soprattutto ricorda quella di un dozzinale fast-food. Ci salviamo con il bacon: buono, ben cotto “a stecchetto”, sposato ad una salsa custard saporita ma non piccante. Insignificante invece la maionese, mentre il ketchup ricorda molto da vicino l’Heinz, che in questi giorni dopo 40 anni ha divorziato da McDonald’s.
Sulle patate poco da dire, se non che sono tagliate a bastoncino con una forma seghettata alla ricerca di carisma e sintomatico mistero. Sono discrete ma non indimenticabili, mentre sfugge alla moderna speculazione filosofica il senso di quelle “pompate” al formaggio.
Insomma, un falso mito? Più o meno. Diciamo che Shack Shack è una catena di hamburgerie che vince facilmente il confronto con le più famose multinazionali del settore, ma che dista anni luce dall’esperienza “gourmet” che spopola anche in Italia.
[Crediti | Link: Shake Shack, Five Guys. Immagini Andrea Soban, Shake Shack]