Quest’anno siamo stati bravi: non vi abbiamo tediato con anticipazioni di quella che è, piaccia o no, LA classifica fino a due settimane dall’evento. Lunedì 28 aprile, infatti, tutto il gastromondo che conta (non io, quindi, che pontifico da un home office dietro Viale Somalia) sarà a Londra per la premiazione della World’s 50 Best Restaurants (da qui, all’occorrenza, W50B), la classifica sponsorizzata da San Pellegrino e Acqua Panna che in pochi anni è riuscita a imporsi come power ranking dei migliori ristoranti al mondo.
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L’anno passato, il Noma di Copenhagen è stato scalzato dal primo posto dal Celler de Can Roca, noto anche come il ristorante che tutti gli italiani hanno visitato quando aveva una stella (due per i parvenu) e i voli tra l’Italia e Girona erano acquistabili sul sito della Ryanair al prezzo di una pizza (oggi, con un mix di pianificazione e fortuna, si riesce comunque a rimanere entro i cinquanta euro andata e ritorno). Noi, ovviamente, abbiamo una recensione piatto per piatto vecchia meno di un anno (ce l’avevamo anche del Noma finché è stato al numero uno, eh, avete forse visto l’insegna PARRUCCHIERE PER BAMBOLE qui fuori?).
Le speculazioni sulla classifica di quest’anno impazzano da un po’, ma fin qui abbiamo preferito limitarci a registrarle. Tuttavia, quando l’Observer Food Monthly suggerisce che l’Osteria Francescana di Massimo Bottura potrebbe ritrovarsi sul gradino più alto del podio, è necessario passare all’azione.
Teniamo presente che, per chi vive di pane fatto con cereali dal nome altisonante e riduzioni di mosto cotto, tale successo sarebbe significativo quanto lo sarebbe per l’italiano medio una vittoria azzurra ai Mondiali di calcio (evenienza più difficile, passare il girone sarebbe già dignitoso) o, per un topo di biblioteca, il Nobel per la letteratura assegnato a uno scrittore di casa nostra (finché c’è Eco c’è speranza, ma insomma, non ce l’hanno fatta né Pavese, né Calvino, né Mario Rigoni Stern che era la mia great white hope) . Ma seriamente, Bottura può farcela? Ho raccolto in trenta secondi di brainstorming cinque motivi per rispondere sì.
1) La contemporaneità, ossia il ritorno alla forma. In principio, dal 2002 al 2009, fu la gastronomia molecolare, con El Bulli, The French Laundry e il breve interregno di Heston Blumenthal (che vi scatenerà contro una muta di norovirus se gli dite che la sua è cucina molecolare, ma di fatto lo è). Poi si è imposta la nuova cucina nordica, nella persona del bel René (Redzepi), fino al cambio della guardia dell’anno passato, curiosamente anch’esso sancito dal passaggio del norovirus a guisa di angelo di tromba munito, che celebra una cucina spagnola creativa ma più materica, non distante da quella degli altri ristoranti iberici in top ten, Mugaritz e Arzak.
Nell’ottica di un salutare ritorno alla forma, a piatti che anche mio padre e mia nonna riconoscerebbero come tali distinguendone alla vista almeno alcuni ingredienti, il trionfo di Massimo Bottura sarebbe la scelta più logica. Asserire che il miglior ristorante del mondo è quello in cui è possibile assaggiare, oltre all’anguilla che risale il Po e al camouflage di lepre, piatti come ricordo di un panino alla mortadella, compressione di pasta e fagioli o bollito non bollito (per tacer del menu della tradizione che comprende tagliatelle al ragù e bollito misto) apparirebbe come una chiara e nitida dichiarazione d’intenti. Il tutto nella città della Ferrari e delle rezdore.
2) La solidità. Mi occupo professionalmente di gastronomia da otto anni, e mai, in questo periodo, mi è capitato di ascoltare critiche consistenti o voci di appannamenti qualitativi riguardo l’Osteria Francescana. Cosa che le mie visite (che vorrei più frequenti, ma il tempo è un’aquila che ogni giorno si pasce del mio fegato) non hanno fatto altro che confermare. Anche nella W50B il trend, con una sola flessione dal quarto al quinto posto nel 2012, non è stato che di costante ascesa. Una simile progressione, con Bottura novello Indurain che morde la salita con il rapportone, non può avere altro epilogo che l’arrivo a braccia alzate in cima al Gran Premio della Montagna. È solo questione di tempo.
3) La public image. A volte mi pare che il parallelismo tra Massimo Bottura e Steve Jobs sia sfacciatamente evidente solo a me, me ne accorgo dallo sguardo punitivo con cui i gizmo si rivolgono a me ogni volta che esterno il concetto in questione. Manco avessi detto che lo chef modenese moltiplica i pani(ni alla mortadella) e i pesci (il merluzzo dell’Omaggio a Monk, per la precisione). Eppure, fatte le debite proporzioni, ci sta tutto. Parliamo del solo chef i cui discorsi ai congressi di cucina sono attesi come l’arrivo dell’headliner sul palco di un festival rock. Bottura parla spesso e bene, e quando lo fa i savi prendono appunti. Nella società della comunicazione globale, uno chef che comunica quasi tanto bene quanto cucina è un valore aggiunto da non trascurare.
4) Il corporativismo sostenibile. Questa è una cosa un po’ italiana e collegata al punto precedente, ma merita un attimo di riflessione. Laddove Cracco si sputtana con le patatine in busta e Marchesi accetta di legarsi a McDonald’s, nessuno ha il garbo di Bottura nell’associarsi a marchi di grandi dimensioni e di rilevanza internazionale. La reciproca ammirazione con Oscar Farinetti è cosa nota e palese, ma lo chef dell’Osteria Francescana è immune agli strali di tanto in tanto rivolti al farinettismo. E le collaborazioni sono con realtà come Lavazza, che sono sì corporate, ma con la loro ricerca portano innegabilmente avanti un discorso serio e circostanziato su tutti i livelli gastronomici, partendo dallo scaffale del supermercato per arrivare a chiudere le degustazioni più desiderate del mondo.
5) L’Expo. 2015. Expo. Milano. Fi.Co. Farinetti. Renzi. Bottura. Unite i puntini.
Insomma, tutte rose e fiori? Ci prepariamo a festeggiare con le nostre bollicine preferite? Un attimo, per favore. Perché a fronte di questi cinque ottimi motivi per cui Bottura può farcela, ce ne sono almeno tre contrari, minacciosi come nubi oscure di ieri sul nostro domani odierno:
1) La staticità della W50B. Questa classifica, l’anno passato, ha cambiato capolista per la quarta volta in dodici edizioni, e l’unico ad averla comandata per un solo anno è stato Blumenthal nel 2005. È cambiato il leader, è cambiato il tipo di cucina da questi rappresentato, e non si registrano epidemie di norovirus dalle parti di Girona: perché un altro avvicendamento?
2) Lo scarso peso specifico dell’Italia. Per la metodologia delle votazioni, far primeggiare un ristorante italiano è particolarmente difficile. Fra i 900 delegati della Diners Club® World’s 50 Best Restaurants Academy, che votano secondo questi criteri il miglior ristorante del mondo, l’Italia è certamente meno influente di Francia, Spagna, Stati Uniti, Regno Unito e perfino della Svizzera. In più abbiamo lo stesso problema dei cugini d’Oltralpe, da sempre considerati bistrattati dalla W50B: la difficoltà nel far convergere i voti su un solo ristorante. Ultima pillola: una gola profonda votante mi ha pronosticato che per l’Italia non sarà un anno felice.
3) Se colpo di teatro deve essere… L’anno passato, in molti pronosticavano l’ascesa del D.O.M. di San Paolo, che invece perse due posizioni attestandosi sesto. Ma attenzione, perché la spinta propulsiva di Alex Atala è ben lungi dall’essersi esaurita, e lo chef brasiliano potrebbe riconquistare posizioni. Fino in cima? Improbabile, ma sarebbe il colpo di scena che fin qui non c’è mai davvero stato – e prima o poi dovrà accadere, pena il rischio di perdita d’interesse.
Sono ben dieci anni che il miglior ristorante al mondo si trova in Europa, e l’assegnare questo premio al D.O.M. si caricherebbe di numerosi significati. A ciò si aggiunga che, fra i ristoranti sudamericani, è più facile far concentrare i voti su pochi nomi. Fermo restando che San Paolo è oggi una delle città più ricche del mondo, e che sono già molti anni che si guarda con grande interesse alla cucina contemporanea sudamericana.
Mondiali di Calcio. Olimpiadi. Brasile. San Paolo. D.O.M.
Unite i puntini.
[crediti | Link: Dissapore, Guardian. Immagini: MarieClaire, NewYorker, spoonhq]