Tra i termini più utilizzati in campo gastronomico nel terzo millennio c’è senz’altro “fusion”. Definisce una delle conseguenza delle ondate di immigrazione che hanno modificato le nostre piccole certezze – anche quelle culinarie: nuovi ingredienti, nuove tecniche e nuovi strumenti di cottura. Ma la cucina fusion non è necessariamente legata alla contemporaneità.
Arcangelo Dandini, cuoco e patron di L’Arcangelo di Roma, dedito a un’impeccabile declinazione dei piatti più tradizionalmente romani, racconta come proprio questi piatti abbiano realizzato il concetto di fusion. In “Memoria a mozzichi” (brutto titolo per un bel libro di ricette), Dandini suddivide in quattro tempi i 2900 anni di cucina romana.
In principio ci fu lo stravagante Marco Gavio Apicio – citato sia da Seneca sia da Plinio – cui sono attribuite le ricette e gli appunti raccolti nei dieci libri del De re coquinaria. Una cucina ricca, con materie prime provenienti da ogni luogo dell’Impero, accompagnata da condimenti decisamente sapidi (come il garum) necessari per coprire sapori quasi mai integri.
Dalle antiche ricette di Apicio, con un salto temporale di 15 secoli, approdiamo al secondo tempo della cucina romana, rappresentato dalla cucina ebraica del Ghetto. Con il pesce più povero, con le teste e con le lische, con l’utilizzo delle parti meno nobili del bue (il quinto quarto), con le tante limitazioni imposte dalla Bolla di Paolo IV “Cum nimis absurdum” che istituiva il Serraglio (nome ufficiale del ghetto romano), le cuoche ebree hanno inventato una cucina di pochi ingredienti eppure varia e gustosa, improntata alle ricette dei paesi d’origine. La prima vera cucina fusion si sviluppa dunque nel Serraglio di Roma tra il 1555 e il 1870.
Il terzo tempo avviene nello stesso periodo: è cucina di corte, la corte papale. L’apoteosi si raggiunge con il cuoco Bartolomeo Scappi, capace di sfamare tutti i partecipanti di un conclave o di servire un pranzo all’altezza dell’imperatore Carlo V. Nei sei ricchissimi volumi del suo trattato di cucina, Opera di Bartolomeno Scappi, maestro dell’arte del cucinare, compaiono per la prima volta il disegno di una forchetta e la ricetta della coda alla vaccinara.
Infine il quarto tempo, quello della cucina romana-testaccina. Dal 1870 Roma è capitale del Regno d’Italia e si popola di funzionari piemontesi e di operai e muratori delle campagne abruzzesi, umbre, marchigiane: la forza lavoro che costruirà i nuovi quartieri della capitale. Ognuno porta da casa i suoi ingredienti, le sue ricette e tradizioni.
Nascono così la pasta all’amatriciana e tante altri piatti: fusioni di ingredienti e ricette regionali, cucinati nel calderone dell’Urbe.
[Crediti | Dalla rubrica “Cibo e Oltre” di Camilla Baresani su Sette, inserto del Corriere della Sera. Immagine: New York Times]