In tutta sincerità, con una mano sul cuore e l’altra metaforicamente sullo stomaco (“è buono qui, è buono qui”) dobbiamo riconoscere che anche noi, mentre ora ci apprestiamo a salire sullo scranno dei maestrini con il mestolo rosso, facciamo uso, certo con moderazione ma succede, delle seguenti parole.
Le regole sono fatte per essere infrante – mi detta la parte spaccona e nichilista della mia coscienza – ma se c’è una cosa per la quale vorremmo evitare una porzione di quotidiano imbarazzo è di sentire cuochi, scrivani, figuranti televisivi e gente comune inventarsi un gergo imbarazzante. E fingere pure di capirsi, usandolo.
1. “Consistenza“.
Non usiamo mai più consistenza. Potrebbero arrestarci. Consistenza è stato scritto in tutti i blog, in tutte le riviste, in tutti i libri di cucina stampati nel 2012. Si può fare meglio. Il Devoto-Oli suggerisce “spessore”, “corpo”, “densità”, allora perché sempre consistenza? Mai più consistenza, davvero! Impegnamoci.
2. “Frosting“.
Via dal menu, semplicemente perché afferiscono all’area cupcake. Non potremmo dire glassa o copertura? Questi mezzucci per fare gli americani da spiaggia ricordano tanto la “stràcciatel” di un tormentone pubblicitario degli anni Novanta. Era l’Accorsi del Maxibon.
3. “Eccellenze“.
Abusata dal candidato Pdl Formigoni nel suo indimenticabile 2012 Italian Horror Fregnacce Tour (“se si ruba in Lombardia, questa è un’eccellenza”, ha chiosato quel gran gegno di Maurizio Crozza), è ormai sinonimo di tronfio, vuoto, vomitevole politichese. A farne le spese le molto decantate “eccellenze gastronomiche” nazionali definibili in alternativa “specialità”, “raffinatezze”, “squisitezze”.
4. “Veggie“.
Ossequi ai signori e alle signore che hanno deciso di dire no ai cibi animali. Forse la loro scelta è davvero la più giusta – e lo si scrive senza ironia. Ma perché condizionare e condizionarsi al punto di trovare sbandierati nei menu mozzarelle veggie, hamburger veggie (peggio la crasi: veggieburger), frittata veggie? In via di principio non ci repelle il contenuto, ma anche la lingua vuole la sua parte.
5. Il suffisso prefisso “Gastro“.
Ne abbiamo fatto un uso talmente smodato che ci siamo venuti a noia da soli. E’ arrivato il momento di fare pubblica abiura. Gastrofanatico, gastrofighetto, gastrocrazia. Il problema è che tutto suona da schifo se abbinato al kilometrico “gastronomico”. Fanatici gastronomici? Fighetti gastronomici? Aristocrazia gastronomica? Essù.
6. “Foodie“.
Descrive qualcosa – anzi, descrive me/noi. Eppure l’idea di essere classificata come foodie mi fa sentire così a disagio che finisco per odiarla quella parola. Sì, la odio e rifiuto di usarla. Ma anche se non mi piace so che descrive una realtà, un concetto che nel mondo esiste. Non dirla non cambia le cose.
7. “Evento food“.
Come foodie, ma se possibile deteriore, perché accostato ad altro lemma abusato e soprattutto evanescente: evento. Può significare di tutto: dalla festicciola di compleanno in cortile coi festoni e le patatine rustiche al gran galà con signore luccicanti come branzini e chef narcisi.
8. “Pizza-degustazione“.
Nel caso non bastasse la già obrobriosa “degustazione” da sola. Già si fatica a digerire ingredienti sempre più improbabili, almeno lasciamo alla pizza il suo puro, genuino, un po’ equivoco nome di battesimo.
9. “Cultivar“. Non è che il gelato diventa più buono se si declamano versi sulle targhette anziché esporre, papale, il nome del gusto. Per la frutta in vaschetta per esempio, parlare di “varietà” è forse troppo mainstream?
10. “Nocciola gentile“. Più che la parola, il prodotto. Ormai non si può dire nocciola senza il suo seguito ingombrante di gentilezza, come fosse un tutt’uno con la nocciola stessa. E le Nocciole dei Nebrodi, e delle Madonie? E la Tonda di Giffoni? E la Tonda Calabrese?
PS: Non facciamoci fregare dal revival.
“Mousse“. Col ripescaggio degli anni Ottanta tornano anche le mousse. “È una crema?” ho udito dire a una signora. “Non proprio: una mousse, ecco” le ha risposto l’amica sporgendo le labbra fino a disegnare una U di muccoso piacere.
“Schiuma“. Sembra strano, ma al bar c’è ancora chi dice “schiuma” parlando di cappuccino – di solito per chiedere di non averla, se non altro. Ci credo, chi sorbirebbe mai qualcosa con lo stesso nome del Proraso?
“Letto“. In particolare la perifrasi “su letto di”. Quagliette grigliate su letto di misticanza, peperoni in forno al primosale su letto di rughetta, millefoglie al rabarbaro su letto di crema croccante al pistacchio. Messaggi subliminali sul dopocena o tentativo di anticipare l’abbiocco al momento della lettura del menu?
“In crosta“. Abbiamo già descritto altrove la fenomenologia dell’incrostamento. A me personalmente l’idea che qualcosa sia “incrostato” fa pensare sempre a un’ipotetica e disgustosa seconda fase, quella del “disincrostamento”, con Gianacarlo Magalli munito di Nielsen che mostra teglie unte senza tradire imbarazzo.
[Crediti | Link: Dissapore, immagine: Corriere della Sera]