Tempo fa, quando ero ancora una studentessa universitaria, mi è stata assegnata una ricerca per il corso elettivo di Storia dei Prodotti Tipici. Tema: ricerca e debunking di un piatto considerato “tipico”. Il mio pensiero è andato immediatamente alla zuppa inglese, italianissimo dessert al cucchiaio che per qualche ragione si fregia di nome da portata salata, aggettivo che denota provenienza estera e numerose attribuzioni di origine sparse per tutta la penisola. Un bel mistero da risolvere, soprattutto perché la storia e i miti di questo piatto “tipico” abbondano e sono spesso in contraddizione tra loro.
Per me poi, che da giovane millennial ho sempre associato la zuppa inglese a un gusto di gelato un po’ vintage che mai avrei ordinato, le domande erano tante e la ricerca potenzialmente infinita. Si pensi infatti alla valenza geografica (almeno nel significante) dei suoi ingredienti: dal pan di Spagna (che peraltro in francese e inglese diventa génoise o Genoa sponge, ovvero pane di Genova), ai sostituti savoiardi made in Piemonte (forse) , all’alchermes di origine persiana e/o araba trapiantato in Italia attraverso monasteri e farmacie galeniche. Ci sarebbe tanto da dire su ognuno di loro, per stavolta sorvoliamo.
Attraverso dizionari, ricettari, articoli, guide e almanacchi (gran parte dei quali consultati presso la fornitissima biblioteca dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, numero uno in materia dello scibile di cibo e bevande da tutto il mondo) ho cercato di ricostruire storia e miti della zuppa inglese. Spoiler alert: non ci sono riuscita, come peraltro illustri storici della cucina che ne sanno molto più di me, ma nel processo ho imparato molte cose interessanti che ho pensato di condividere con voi.
Come nasce un piatto tipico
La premessa è d’obbligo: come nasce un piatto tipico? La domanda all’apparenza innocente ha in realtà molteplici sfumature condite da folklore, marketing e interessi più o meno dichiarati. Il concetto di tipicità e a più ampio spettro di “patrimonio”, in questo caso immateriale, spuntano nell’era moderna e, poco sorprendentemente, nella Francia post-rivoluzionaria. All’inizio per la salvaguardia dei monumenti e i manufatti artistici, poi per i paesaggi e la natura, più in là per il patrimonio etnologico a tutela di aspetti linguistici, culturali e alimentari. Dal 1927 si parla di “patrimonio gastronomico”, mentre è del 1933 il Trésor Gastronomique de France che elenca e descrive le “meraviglie culinarie” nazionali.
Da lì in poi è un fiorire di guide, scuole di cucina, sagre e ricettari fino ai lungimiranti Presìdi Slow Food che mirano precisamente alla conservazione e divulgazione delle tipicità alimentari. Si noti che di per sé il “tipico” fa riferimento all’origine, che è a sua volta geografica (provenienza, terroir), cronologica (storia, data di nascita) e progettuale (chi, come, perché ha inventato). Detto questo, gli elementi che contribuiscono a rendere e immortalare un piatto tipico sono:
- Tradizione: fa riferimento alla durata temporale e risponde alla domanda “da quanti anni si mangia/si prepara X?”. Si pensi al processo di registrazione dei PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) la cui esistenza e pratica deve essere comprovata per un periodo non inferiore ai 25 anni;
- Memoria: documenti, inventari, fonti scritte e orali che, dalla “prima attestazione” in poi, contribuiscano alla costruzione identitaria del prodotto o piatto tipico caratterizzandolo per unicità e genuinità rispetto a una presunta standardizzazione esterna del gusto;
- Mito gastronomico: lo storytelling immaginifico che riporta a un’idea di tipicità come passato ideale e naturale e soprattutto serve al marketing per rendere il prodotto ancora più appetibile. Fra i topoi gastronomici più utilizzati ricordiamo “La Nonna” (dolce della nonna, Nonna Papera) che a volte lascia il posto alla Mamma (come cucina lei, nessun’altra). Seguono “La Notte dei Tempi”, “Di Una Volta” o leggermente circostanziato “Il Medioevo” (più di mille anni ma vabbè). Infine, soprattutto in Italia e Francia, la figura quasi mitica di “Caterina De’ Medici” la quale probabilmente in cucina non mise mai piede eppure, per ragioni meramente politiche e satiriche, si è vista appioppare talmente tanti piatti tipici da trasformarla in un’Antonella Clerici ante litteram.
Variabili, divergenze e attribuzioni più o meno immaginifiche sono sempre dietro l’angolo. Ancor di più per la zuppa inglese, che vanta forse più miti gastronomici di Caterina. Vediamo quali sono.
I miti
“It may be that exuberant joke, the zuppa inglese, a trifle much glorified, it is true, but still a trifle”. Chiosa così Elizabeth David nel suo Italian Food del 1954: in fin dei conti la zuppa inglese, per quanto se ne parli, rimane pur sempre un dolce a strati e in fondo neanche così speciale. In effetti si potrebbe dire che il suo appeal stia più nella forma che nella sostanza, in quel mistero che la avvolge a partire dal nome e dalle figure che vi sono state costruite attorno. Ecco quali sono.
La Zuppa
Secondo l’Oxford Companion to Food, enciclopedia del cibo curata da Alan Davidson e pubblicata per la prima volta nel 1999, il termine che oggi utilizziamo a piacimento per minestre, creme e vellutate ha in realtà un significato semplice e preciso. Deriva dal latino suppa (in inglese antico sop) e si riferisce unicamente al “pane inzuppato in brodo”. Fin qui il paragone regge: del resto la base della zuppa inglese (pan di Spagna, biscotti, ecc) viene intinta negli ingredienti liquidi (liquore, crema, cioccolato) in modo da assorbirli e creare un dessert spugnoso e omogeneo. Il suo corrispettivo anglosassone è il trifle, la cui prima attestazione si trova nel ricettario The Good Huswifes Jewell (1585) di Thomas Dawsons. Trifle o fool in inglese parlato denota quella sciocchezza o quisquilia (la joke di apertura) traslata in un dessert “da avanzi”: pasta lievitata, vino dolce, pezzetti di frutta, custard o double cream con quel che c’è, senza per forza bisogno della presenza di tutti gli ingredienti.
Il Diplomatico
Si ricollega all’origine emiliana della zuppa inglese. Un diplomatico che viaggiava a Londra per conto della corte Estense riportò in patria la ricetta del trifle. Questa ebbe successo e la base di pasta lievitata venne progressivamente sostituita dalla brazadèla o ciambella ferrarese tipica della cucina emiliana. La tesi è sostenuta anche da Norma Carpignano, autrice della raccolta di ricette e tradizioni culinarie piemontesi Galuparìe (2017).
Il Duca I e II
La tesi dell’origine toscana del dolce trova riscontro in Gosetti (Il Dolcissimo, 1984) e Serventi e Sabban (Pasta: the Story of a Universal Food, 2002). Secondo gli autori, la zuppa inglese si sarebbe chiamata anche “zuppa del duca” e “dessert di Siena”. Venne infatti servita nel 1552 al Duca di Correggio, inviato da Cosimo de’ Medici a Siena per risolvere una disputa tra senesi e spagnoli. Tornato a Firenze, il Duca si portò dietro la ricetta che trovò favore soprattutto tra gli ufficiali inglesi. L’altro Duca viene riportato da Giovanni Righi Parenti in Dolcezze di Toscana (2006): si tratta del Duca d’Amalfi, ministro a Siena per conto di Carlo V a metà Cinquecento, anch’egli evidentemente vittima dei pasticcieri della città.
L’Ammiraglio
Si parla naturalmente di Horatio Nelson, protagonista suo malgrado dell’origine napoletana della zuppa inglese. L’episodio viene riportato dall’Oxford Companion to Sugar and Sweets (2015), enciclopedia dedicata esclusivamente ai dolci: la zuppa fu servita nel tardo Settecento dal re Ferdinando IV di Napoli in un pranzo in onore dell’Ammiraglio. Come tanti altri miti, non si trattava del dessert previsto e venne raffazzonato all’ultimo momento cercando di ravvivare una pasta rafferma con tanto rum (liquore notoriamente britannico) e crema. Per la fretta qualcuno in cucina deve aver urlato: “Porta questa zuppa all’inglese!” (all’uomo inglese), da cui il nome.
La Governante
Nei miti gastronomici non manca mai la figura della serva, in questo caso una governante che con astuzia o semplice buon senso rivoluziona la cucina. La vicenda viene riportata da Leo Codacci in Civiltà della Tavola Contadina (1980) di nuovo a supporto dell’origine toscana. Ci troviamo a Fiesole a servizio di una facoltosa famiglia inglese: la governante, che non se la sente di buttare via gli avanzi, mette insieme quel poco che rimane di biscotti secchi, crema pasticciera e budino al cioccolato. Una spruzzata di vino dolce per ammorbidire il tutto, et voilà la zuppa inglese dedicata ai padroni di casa.
La Viaggiatrice
Il resoconto di Glayds Patton del 1860 The Englishwoman in Italy supporta l’origine marchigiana del dolce. Mentre descrive un rustico matrimonio ad Ancona, Patton spiega che l’aggettivo inglese viene attribuito unicamente in funzione dell’alcol presente nella ricetta osservando con una certa ironia gli stereotipi che intercorrono fra cittadini britannici e italiani.
La storia
Come abbiamo visto per i miti, anche la storia o per meglio dire evoluzione della zuppa inglese è piuttosto frammentata. Nel senso di sbalzi cronologici, contraddizioni dietro l’angolo e letteralmente “frammenti” da ricercare qua e là, di solito dove l’aggettivo inglese compare nella sezione dolci. Così anche le fonti, dai dizionari gastronomici a guide, almanacchi e ricettari dal Novecento al Rinascimento.
Dizionari
Partiamo dalla fine dove peraltro scatta subito la controversia. Sandro Doglio nel Gran Dizionario della Gastronomia del Piemonte (1990) ci dice infatti che la zuppa inglese è un dolce tipico del Piemonte (!), non se ne trova traccia altrove ed è sconosciuta in Inghilterra. Si tratta di una torta umida a base di biscottini leggeri all’uovo o savoiardi, inumiditi con alchermes e sormontati da crema di cioccolato e panna montata. In certe zone, prosegue Doglio, è conosciuta come moru per il colore scuro dato dal cioccolato. La pensa diversamente Alfredo Panzini che nel suo Dizionario Moderno (1923) colloca la zuppa inglese in Italia centrale e meridionale (!!) e la descrive come una crema versata su marzapane intriso di rosolio e guarnito di confettini. Panzini chiude con un “altrove dicono zuppa alla russa” buttato lì quasi casualmente. Il mistero si infittisce.
Guide e almanacchi
L’opinione sull’origine diverge per il Touring Club Italiano che nella prima Guida datata 1931 definisce la zuppa inglese una “crema con biscotti inzuppati di alchermes e rum” tipica di Roma e della Romagna. Dello stesso avviso Alberto Cougnet, già autore di classici etnologici e gastronomici come L’Arte cucinaria, Il Ventre dei popoli e I Piaceri della tavola, che nel suo Almanacco Italiano del 1904 presenta la zuppa inglese come dolce tipico di Roma. Concordano Ada Boni, autrice de Il Talismano della Felicità, e il poeta e stornellatore Giuseppe Gioacchino Belli che colloca il dolce nella tradizione pasquale capitolina: “Brodetto, ova, salame, zuppa ingresa/ carciofoli, granelli e ‘r rimanente/ tutto a la grolia de la Santa Chiesa”.
Ricettari
È però del 1911 la versione più nota, ovviamente firmata Pellegrino Artusi: la ricetta #675 “Zuppa Inglese” si fa con savoiardi intinti (non troppo) in rosolio bianco o alchermes alternati a crema e conserva di frutta. Nella versione artusiana il dolce al cucchiaio è attribuito stavolta alla Toscana “ove, per ragione del clima e anche perché colà hanno avvezzato così lo stomaco, a tutte le vivande si dà il carattere della leggerezza e l’impronta, dov’è possibile, della liquidità”. Le doti di leggerezza e liquidità si attribuiscono alla crema pasticciera “sciolta” fatta senza amido né farina, non idonea allo stampo per dolci ma ideale da servire in tazzina da caffè.
Facciamo un salto indietro nel tempo con il ricettario anonimo Il Cuoco Perfetto Marchigiano (1891): diversa regione, diversi ingredienti, stavolta un pan di Spagna imbevuto di rosolio e rum e crema profumata di cannella e limone. Ne La Gastronomia Moderna di Giuseppe Sorbiatti (1871) l’aggettivo “inglese” riferito a dessert al cucchiaio compare in ben tre preparazioni: “Zuppa di miscela in gelatina all’inglese”, una sorta di macedonia macerata con liquore alternata a savoiardi e gelatina al rum; “Crema renversé all’inglese”, tè con crema e latte bollente, uova, zucchero e rum; “Crema all’inglese gelata”, tè con latte e crema, “mezzo quintino di buon rach” (rum?) e colla di pesce. Nello stesso anno l’anonimo Il Cuoco Sapiente ci racconta di una zuppa inglese con pan di Spagna o bocca (baci?) di dama, rum, crema di latte, rosolio e/o alchermes.
Giungiamo infine al tomo II de Il Manuale del Cuoco e del Pasticciere di raffinato gusto moderno (1834) di Vincenzo Agnoletti, da molti considerato il padre putativo della zuppa inglese. Agnoletti, credenziere e liquorista alla corte di Maria Luigia Duchessa di Parma, ci dice che la zuppa inglese si fa “come il marangone”, un dolce a strati con biscotti delle monache o pan di Spagna intinti nel rosolio con aggiunta di frutta secca, albume, zucchero, crema e marmellata. Rispetto al marangone, la zuppa inglese agnolettiana ha qualche differenza: rum al posto del rosolio, rifinitura con meringa cruda o al forno, crema, candito d’uovo (parole sue) o marmellata, e la guarnizione con “confetture, spume, brillante”.
Possiamo considerare questa la ricetta originale della zuppa inglese? Forse. Ma vale la pena citare altre due voci ancora precedenti. La prima risale al Settecento e appartiene a Vincenzo Corrado, autore de Il Cuoco Galante (1768) : la sua “Crema all’inglese” è un miscuglio di panna e latte sbattuti con uova e zucchero, uva passerina, portogallo (c’era una volta il nome dell’arancio) candito, datteri sminuzzati e polvere di cannella. Il tutto si cuoce e viene servito freddo. Infine un bel rewind cinquecentesco con Cristoforo Messisbugo, cuoco e scalco alla corte estense che nel libro postumo del 1549 descrive una “Zuppa magra inglese” di tutt’altra natura. Si tratta infatti di radici stufate in brodo di carne addensato all’uovo, il tutto versato su fette di pane e cosparso di zucchero e cannella. Insomma i fondamentali ci sono (pane imbevuto, crema, spezie): per tutto il resto bisognerà aspettare qualche centinaio di anni.
Le ricette
Ma allora, come si prepara questa benedetta zuppa inglese? Partiamo dalle varianti regionali descritte dall’Accademia Italiana della Cucina e attribuite a Emilia-Romagna, Lazio, Umbria e Marche. Curiosamente manca la versione toscana: svista, complotto, dispetto? Chi lo sa, ormai brancoliamo nel buio. Quali sono i punti in comune tra le ricette? Base di pane o biscotti da inzuppare, strato di crema pasticciera con farina, latte e tuorli, presenza di un liquore (di solito alchermes, ma anche rum o rosolio). Vediamo invece le differenze:
- Emilia-Romagna: base di pan di Spagna, cioccolato amaro grattato
- Lazio: base di pan di Spagna tagliato a metà, canditi al posto del cioccolato
- Marche: base di savoiardi, crema al cioccolato, liquore al caffè Borghetti
- Umbria: base di pan di Spagna, cacao amaro
Eccoci arrivati alla fine del nostro viaggio, con qualche risposta e tante domande vero, ma con un bagaglio in più di conoscenze storico-culinarie. Manca qualcosa? Ah sì, la nostra ricetta della zuppa inglese!
[In copertina la Zuppa Inglese di Niko Romito]