Piatto singolarissimo, la zuppa di aragosta è simbolo gastronomico di Marettimo, “isola sacra” di pescatori e insenature incantate nell’arcipelago delle Egadi, in Sicilia. Ci siamo fatti spiegare i suoi segreti.
Marettimo appare come un miraggio, al centro del Mediterraneo è l’unica isola verde e rigogliosa, con le vette cinte di nubi e con l’aspetto altero e silvano di un piccolo Olimpo (o di un vulcano polinesiano). Appena scesi sul molo si ha subito l’impressione di aver messo piede in un villaggio di pescatori, ma non è la solita sensazione da turista catapultato in un altrove, qui si scorgono immediatamente – prima del villaggio di basse case bianche – i tanti piccoli pescherecci, e sulle strade i gruppi di persone intenti a riparare le reti o a sistemare i grandi ami dei palamiti.
Il paese sembra così aver viaggiato nel tempo e l’armonia della sua stretta distesa di costruzioni orlate d’azzurro, ne detta il suo grado di verità tanto quanto gli intonaci scrostati, l’impiantito un po’ sconnesso o i mucchi di reti rosse in cui ci si imbatte tra i vicoli, con tre generazioni d’uomini – i più piccoli ancora bambini – intenti a riannodarle in vista della notte.
Il destino dell’isola sacra
Sin dall’antichità il destino dell’isola – Hierà Nésos, per i greci: isola sacra – era quello di ambito rifugio nel cuore del Mare Nostrum, ed era tale per l’abbondanza delle fonti d’acqua dolce, cui pare si riferisse l’attestato di sacralità. Punto d’approdo e di partenza, Marettimo, da sempre pescosissima, ha visto un’emigrazione importante tra Ottocento e Novecento, quando gli abili pescatori isolani partirono alla volta di Monterey, in California, dove erano destinati a specializzarsi e fare fortuna nella pesca delle sardine; o addirittura verso l’Alaska, in cui hanno imparato le tecniche per la pesca del salmone. Altri sono arrivati in Portogallo, dove si sono arricchiti alla guida delle prime aziende che inscatolavano acciughe e sardine sotto sale.
Le storie degli emigranti, così come quelle delle tecniche di pesca usate per secoli a Marettimo, sono raccolte nel piccolo ma ricco Museo del mare, dove fanno mostra di sé reperti di un tempo passato, come le reti e le nasse in lentisco e altre essenze della macchia mediterranea (e come è evidente le trappole di un tempo erano molto più intrinsecamente sostenibili di quelle odierne in nylon, essendo totalmente biodegradabili).
Marettimo: niente di sacro tranne il pesce
Che cosa conti più di tutto il resto su questa piccola e splendida isola è del resto testimoniato anche dalla principale delle edicole votive, che troverete a un crocicchio a due passi dallo Scalo vecchio e che è solo pretestuosamente dedicata alla Madonna. L’iscrizione parla chiaro e rivela cos’è che gli isolani qui venerano davvero, vale la pena copiarla:
I PESCATORI GASPARE LIOTTI
E VINCENZO SPADARO
IL GIORNO 26 APRILE 1870
NELLE VECINANZE
DELL’ISOLA DEL MARETTIMO
FECERO UN ABONDANTE PESCA
DI LICEIOLE
DEL VALORE DI ONZE 350
E CIO’ IN MEMOIRA
DI SI MAI VERIFICATA PESCA
Per chi se lo stesse chiedendo le liceiole sono le ricciole. Marettimo è molto generosa ancora oggi, e malgrado i pescatori locali lamentino un calo lento ma costante nel numero delle loro prede, basta un occhio appena allenato per vedere che pescano in effetti molto più che altrove. Una controprova forse risolutiva può essere racchiusa nella constatazione di quello che è senza dubbio il piatto forte dell’isola, una singolarissima zuppa di aragosta – che testimonia per prima cosa quanti di questi crostacei tradizionalmente qui si siano sempre pescati (e, lasciatemi dire, si pescano: mai nel Mediterraneo ho visto un borgo portarne tanti a riva ogni mattina).
Il re dell’isola di Marettimo
Per saperne qualcosa in più non ho potuto che chiedere numi a quello che oggi appare come il vero re operoso e tranquillo dei pescatori di Marettimo: Pippo Incaviglia. Lo vedrete sempre comparire nel breve tratto che separa lo Scalo vecchio dalla sua abitazione, intento a scendere o salire da una delle sue barche – su cui d’estate porta anche in gita i turisti attorno all’isola –, oppure a chiacchierare con la moglie e con gli amici mentre sistema le reti.
Con la scusa dell’acquisto di una bella aragosta non ho potuto così che domandargli come andasse cucinata la famosa zuppa (che qui trovate proposta come acme gastronomico in ogni ristorante), e lui subito mi ha invitato in casa dove mi ha presentato la moglie Maria, che mi ha descritto per filo e per segno come preparare un piatto invitante e singolare da tanti punti di vista. Vi anticipo solo che tra gli ingredienti, ad accompagnare la lieve dolcezza del crostaceo, spuntano la cannella e le mandorle tritate. Del resto, se in un’isola dove da sempre se ne pescano così tante si conviene che il modo migliore di prepararla è questo, vale almeno la pena di provare (e, tra parentesi, vi viene in mente un altro posto in Europa che abbia come piatto forte l’aragosta?).
La zuppa di aragosta di Marettimo: come si fa
Ecco dunque la ricetta di Maria, la trascrivo per come me l’ha dettata. Per prima cosa occorre preparare un soffritto con cipolla, prezzemolo, olio e se ce l’avete qualche pomodorino. Questo soffritto dovrà essere biondo, si raccomanda Maria, leggero. Già a questo punto potrete scottarvi l’aragosta divisa in due.
Prima di immergerla nella casseruola, già che l’avrete spaccata, controllate se per caso l’animale non custodisca le uova (le femmine si possono riconoscere da una coppia di zampe dalle estremità biforcute): se ce le ha rovesciatele da subito nel soffritto insieme al melano, un organetto (forse il fegato?) marrone scuro che insaporirà la base di cottura.
Quando il soffritto è pronto potrete togliere l’aragosta (che aggiungerete di nuovo più avanti, per completarne la cottura), e versare nel tegame mezza bottiglia di passata di pomodoro, un po’ di sale, un bel pizzico di cannella (o anche un bastoncino), un po’ di peperoncino per dare un po’ di mordente e un bel po’ d’acqua, perché dovrete lasciar cuocere a lungo questa soluzione, anche più di mezz’ora (e se vedete che la zuppa si asciuga troppo, sarà vostra cura aggiungere altra acqua).
Tenete a mente che il risultato finale come consistenza e come proporzione rispetto alla pasta dovrà ricordare in tutto e per tutto quello di un brodo. Quando il sugo sarà cotto, si aggiungeranno l’aglio pestato, le mandorle tritate e – siamo a un quarto d’ora dalla fine – l’indiscussa regina di questa sera.
La pasta – per servire la zuppa di aragosta vengono scelti immancabilmente gli spaghetti rotti, cioè spezzati – andrà cotta a parte, scolata e finalmente accoppiata al ricco brodo (che se volete fare una cosa di classe passerete in un colino onde eliminarne residui e impurità).
Potete decidere di servire le due metà dell’aragosta intere in una ampia terrina con tanto di zuppa e pasta, oppure, se preferite, potrete pulirla e aggiungerne i pezzi di polpa direttamente al brodo (rinunciando però a un po’ di spettacolarità in tavola). A questo punto non vi resterà che stupirvi del risultato.
[Foto: Federico di Vita; le foto della preparazione sono di Luana del ristorante Il Pirata di Marettimo]