Fra le tante gastromode, ce n’è una che sembra non conoscere battute d’arresto ed è quella del quinto quarto, di cui la trippa è la più illustre rappresentante. La regina delle frattaglie può contare su schiere di adepti, appassionati della consistenza callosa e del gusto peculiare, sebbene sia capace di assorbire i sapori di quel che la circonda.
Come è fatta
Per definizione, la trippa è composta dai prestomaci dei ruminanti, gli organi che fanno da “anticamera” della digestione vera e propria che avverrà nello stomaco.
Proseguo il ripassino di anatomia dicendoti che la trippa di bovino, in assoluto la più comune, è a sua volta formata da quattro parti diverse.
Il rumine è la più spessa, dalla superficie regolare. Il reticolo o cuffia presenta la caratteristica struttura a nido d’ape. L’omaso, altrimenti detto foiolo, centopelli o libretto, è percorso da lamine sottili. L’abomaso, infine, è simile a un groviglio di nastri e di colore scuro: in molti pensano sia già intestino, mentre per i gourmand è solo il lampredotto fiorentino.
Ormai tutta quella che compri è prelessata e trattata, bianca e pronta da cucinare a casa con tempi abbastanza rapidi, intorno ai 30-40 minuti.
Questo, a meno di non avere un macellaio specializzato che ti dà la cosiddetta trippa grigia, pulita ma non sbianchita né lavata. Molto più intensa nel gusto, vorrà una lessatura di almeno 3 ore prima di essere rifinita con sughi e altri ingredienti.
Ciò detto, come tutte le gastromode, accanto alla tradizione ci vuole l’innovazione, no? Quindi, vado a raccontartele entrambe.
La tradizione è in umido
Quel che rimane dalla macellazione della bestia intera ha storicamente riempito le pignatte delle cucine “povere” e le pance dei popolani. Alcuni di questi scarti, come le animelle, sono oggi considerati alla stregua di cibi di lusso (e venduti a prezzi di conseguenza). Mentre la trippa, per nostra fortuna, ha conservato la sua natura umile, perfettamente interpretata dalle ricette della tradizione, che sono essenzialmente in umido, piuttosto brodose, quasi delle zuppe, da accompagnare con fette di pane casereccio o polenta.
A parte il lampredotto, che costituisce caso a sé, le ricette in genere sono democratiche nel mescolare le tre tipologie di trippa, affettate a striscioline più o meno sottili, secondo gradimento personale.
Sempre generalizzando, la base è il classico sedano-carota-cipolla, mentre il sugo è preparato con pelati o passata.
Piccolo inciso: a dispetto di quel che si crede, di per sé la trippa non è più grassa di un filetto, attestandosi intorno alle 100 calorie per etto. Quel che la rende “robusta” è che si presta a intingoli ricchi, grondanti di condimenti. Ma chi siamo noi per spaventarci davanti a un soffritto, un giro di olio buono, un battuto di lardo o guanciale?
Città che vai, trippa che trovi
A Roma la trippa si cucina con il pomodoro, il pecorino e, non di rado, proprio un fondo di guanciale, quando non un soffritto dorato nello strutto. Per (tentare di) bilanciare tanta roba, viene in aiuto la freschezza della menta romana.
A Firenze le erbe tipiche sono l’alloro e il basilico e la trippa si completa con il parmigiano. Formaggio che rifinisce anche la versione bergamasca, in brodo con le patate.
A Milano, il taglio prediletto è il foiolo, ritenuto il più “elegante” (se di eleganza si può usare, parlando di frattaglie): il piatto si chiama busecca (con la “e” aperta!) e prevede l’aggiunta di fagioli, bianchi di Spagna o borlotti, e spesso anche pancetta nel soffritto.
In tutte le versioni si può aggiungere, e secondo me non guasta, un chiodo di garofano.
E il lampredotto? Come dicevo, è una storia a parte. Lessato a pezzi interi in acqua o, meglio, brodo di carne con le solite verdure odorose, una volta scolato si affetta fine fine e si serve nel panino, bagnato con il brodo, completando con salsa verde e/o scorza di limone o qualche goccia di succo.
Se, infine, vuoi una ricetta basic ti rimando a questo post.
Fritta è buona anche una trippa
Finita la carrellata delle versioni ortodosse – tutte buone eh, ma anche tutte già viste – passiamo a quelle più intriganti. E partiamo dal fritto, che è sempre una garanzia.
Al momento, la trippa fritta più buona in circolazione è quella di Diego Rossi di Trippa (ma va?). Il taglio è la cuffia, che si deve stracuocere, a partire dal pezzo intero, finché è molto, molto, molto morbida. Una volta scolata (bene), si taglia a striscioline larghe un cm e lunghe 6-7 cm che si infarinano con comune farina bianca e si tuffano in olio caldo, 160-180°, fino a doratura. Ben sgocciolate si cospargono ancora caldissime con sale, pepe nero e rosmarino.
Diego la serve tal quale, ma ammette che ci si possa abbinare una salsa: maionese alla paprica o aïoli.
Qualcuno passa la trippa in uovo e pangrattato e la serve con una spruzzata di succo limone. Così, però, si perde la bellezza e la croccantezza naturale che assume il reticolo in frittura.
Se la facessimo in bianco?
C’è chi ha dichiarato pubblicamente di essere dimagrito, con la consulenza di un nutrizionista, pur inserendo nella dieta la trippa. Proprio perché, come si diceva, in sé e per sé non si tratta di una carne particolarmente grassa. Basta essere cauti nella preparazione.
La cottura più leggera, in questo caso, è la lessatura. Naturalmente, in un’acqua salata e aromatizzata a dovere con i soliti ortaggi, l’alloro, i chiodi di garofano e, perché no, l’anice stellato, qualche fettina di zenzero fresco, un nonnulla di cannella.
Quando è pronta, si deve scolare alla perfezione. Io, che in questo modo la preparo spesso, la raccolgo in un cestello per la cottura a vapore che inserisco in una pentola su due o tre dita del suo brodo profumato, tenuto su fuoco dolcissimo: così, la trippa resta calda e morbida, ma non grondante, come potrebbe risultare data la sua morfologia, creando un brutto laghetto nel piatto.
La servo con un filo di olio crudo, una macinata di pepe, a volte una punta di rafano e me ne faccio una gran scorpacciata, senza sentirmi in colpa.
Se non è la leggerezza che stai cercando, ma semplicemente una versione più fresca di umidi e fritture, puoi mescolarla con una buona salsa verde casalinga e gustarla persino a temperatura ambiente.
Le polpette dell’Artusi
Se mi segui, sai che ho una passione per il gastronomo di Forlimpopoli. Del quale adoro la ricetta delle polpette di trippa che Pellegrino ha, a sua volta, recuperato da un trattato di cucina del 1694.
L’Artusi ne dà dosi abbastanza precise, che ti riporto nel procedimento che segue. Trita molto finemente 350 g di trippa lessata, secondo lui con la lunetta (mezzaluna), comunque al coltello. Fai altrettanto con 100 g di prosciutto “più magro che grasso” (sic) e 20 g di midollo. Mescola il tutto con 2 uova, 2 cucchiai di pane bagnato in brodo o latte, noce moscata, prezzemolo tritato e regola di sale. Forma una dozzina di polpette, infarinale e friggile nell’olio o nel lardo (sic!).
Secondo me son buone già così, ma la ricetta prosegue ripassando le polpette in un soffritto di cipolla e burro, aggiungendo pomodoro e facendo sobbollire 10 minuti prima di servirle, con il sughetto e parmigiano. Il piatto “sebbene di carattere triviale, coi condimenti che lo aiutano riesce gradito e non grave allo stomaco”, sostiene Artusi…
Le trippe degli altri
Tutto il mondo è trippa. Esagero? Mica tanto. Prendi la cucina asiatica. Certo sai che fa larghissimo uso di diversi “scarti di macellazione”. Un quinto quarto allargato che comprende piedini di maiale, colli d’anatra, zampe di gallina e, naturalmente, trippa.
Negli store di snack orientali ne esiste anche una versione secca e piccante in sacchetto, da sgranocchiare come fossero patatine.
Più gentile, ma decisamente speziata, quella assaggiata al ristorante MU Dimsum, di cui ti giro la ricetta. Ti occorrono 300 g di trippa a striscioline (foiolo), da far marinare una notte con una presa di zucchero, una di sale, 60 g di zenzero fresco a lamelle e un cipollotto a rondelle. Il giorno dopo, si sgocciola bene dal liquido emesso e mescola con una cucchiaiata di fecola, 30 g di carote a julienne, un cucchiaino di salsa di soia e un cucchiaio di olio di sesamo. Cuoci a vapore per 15 minuti: il risultato è piacevolmente al dente, un tenace che piace, ma se preferisci puoi prolungare un po’ la cottura.
E concludo con la ricetta madrilena che, nelle mie trasferte spagnole, ho sempre amato molto. Insaporisci la trippa in un soffritto di cipolla con alloro e, se vuoi un battuto di lardo, o semplice olio. Ci sta anche un fondo di jamon o prosciutto crudo nostrano. Aggiungi un paio di chorizo, le tipiche salsicce affumicate, tagliate a tocchi. Spolverizza di pimenton (paprica affumicata), a piacere dolce o piccante, bagna con brodo di carne o vegetale e porta a cottura. Servila in tavola caldissima.
E che trippa sia.