Ogni anno, sulla tavola natalizia, si celebra uno dei massimi capolavori di incoerenza gastronomica: il panettone, deificato fino a poche ore prima dell’apertura, tagliato quindi a fette, perde ogni traccia di sacralità e dignità finendo per assomigliare ad un terreno devastato da un esercito di talpe. Buchi, avvallamenti e brandelli di impasto sono il risultato di operazioni più o meno chirurgiche di eliminazione di uno degli ingredienti più divisivi di sempre: l’uvetta.
Esaltata durante tutto il resto dell’anno, celebrata quale superfood dalle proprietà miracolose, imprescindibile nei granola fai-dai-te, baluardi del salutismo, ricca di vitamine-e-minerali, consigliata come spuntino nelle diete, compagna della frutta secca nei sacchettini energetici di supermercati e distributori automatici, a Natale l’uvetta diviene la reietta del menu, ricacciata in un angolo in castigo, condannata ad essere uno dei sempre più numerosi ingredienti per i quali l’industria dolciaria ha dovuto ampliare la scelta di “prodotti senza”. In buona compagnia con canditi e altra fauna derelitta.
A conferma del nostro atteggiamento bipolare, ecco la confusione sul nome: parliamo indifferentemente di uvetta, uva passa e uva sultanina utilizzando questi termini come sinonimi, spazzando via così non solo secoli di tradizioni gastronomiche, ma dimostrando pure una certa ignoranza.
Per fare un po’ di chiarezza (e anche per difendere un ingrediente assai bistrattato), ecco qui qualche precisazione, che ci permette di mettere il naso anche nel disciplinare del “Panettone Tipico della Tradizione Artigiana Milanese” e di conoscere una delle differenze con quello industriale.
Uvetta (o uva passa) e uva sultanina non sono la stessa cosa
Ovvero come confondere un prodotto frutto di una lavorazione specifica con una varietà. L’uvetta (o uva passa) infatti è un alimento derivato dall’uva (meglio, da specifiche varietà), un prodotto sottoposto a disidratazione e trattamento con glucosio e altri conservanti, che rientra nella grande famiglia della frutta disidratata. La disidratazione, oltre a garantirne conservabilità, determina anche un’alta concentrazione di zuccheri, che tendono a cristallizzare. Ecco perché, prima di utilizzare l’uvetta, essa viene immersa in acqua (o alcol): in questo modo viene reidratata e gli zuccheri cristallizzati si sciolgono progressivamente (anche se l’utilizzo di solo alcol non consente una vera e propria reidratazione quanto piuttosto il semplice scioglimento degli zuccheri).
Tracce di appassimento e traffici commerciali nella storia
A voler cercare tracce storiche di appassimento su pianta e tecniche di conservazione (lo zucchero, così come il sale o l’aceto sono stati in passato degli infallibili metodi artigianali di conservazione di cibo e prodotti: quello che poi è accaduto per piatti che oggi ci mangiamo con gran gusto è una sorta di eterogenesi dei fini) bisognerebbe risalire a Omero e Dioscoride, a testimonianze che raccontano di come nell’antica Grecia si torcesse il peduncolo per ottenere l’appassimento su pianta, a Virgilio che suggerisce le vendemmie tardive (e quindi l’appassimento su pianta), per ottenere del buon vino, a Esiodo che nel VII sec. a.C. afferma come i Greci avessero già individuato varietà specifiche da dedicare esclusivamente all’appassimento.
Senza tornare troppo indietro, basterà ricordare che, in cucina, l’uva passa acquista sempre maggiore importanza a partire dal Quattrocento, come ingrediente dolcificante ed addensante. Se nel Regimen Sanitatis Salernitanum, opera monumentale collettiva, anonima, risultato della consuetudine popolare alla base del quale c’è la tradizione greca e araba , raccolta e commentata nel secolo XIII dal medico e alchimista catalano Arnaldo da Villanova, il taglio è ancora prevalentemente igienico sanitario – “l’uvetta è nutriente e stomatica, giova ai reni e rimuove le oppilazioni del fegato” – ecco che qualche secolo dopo un Anonimo lucano (ma più probabilmente campano) ne cita l’uso in una salsa che chiama “passo”: assieme a fegatelli arrostiti, mollica di pane bagnata d’agresto, cannella e zafferano, era pestata e stemperata con brodo e acqua rosata, addizionata di tuorli d’uovo battuti e cotta dolcemente.
Nella storia del commercio dell’uva passa non poteva mancare Venezia, città-emporio la cui cucina è il frutto di contaminazioni culturali e religiose. Qui le uvette arrivano e si fermano e danno origine ad uno dei piatti simbolo della laguna, le sarde in saor. I mercanti levantini che commerciavano con l’Oriente hanno introdotto nella cucina veneziana le spezie e la frutta secca che venivano da quei luoghi come lo zafferano e le uvette (e qui ci sarebbe da fare una parentesi sui dolci tradizionali che sono frutto di contaminazioni: lo strudel, arricchito con uvette, altro non sarebbe se non una evoluzione del baclava turco e comune a tutto il mondo che vide la dominazione ottomana). Ai ponentini della Penisola Iberica spetta il merito di aver portato sulle tavole veneziane sapori tipicamente mediterranei, molto vicini a quelli della cucina siciliana e di quella spagnola. Pare siano stati loro ad introdurre l’uso spagnolo della preparazione in agrodolce del baccalà, aprendo la strada poi appunto alle sarde con aceto, uvetta e pinoli.
Ma a Venezia le uvette sostano anche per ripartire. E’ il caso del commercio con il Regno britannico e l’uvetta proveniente da isole come Zante e Corfù: scaltrissimi commercianti veneziani (se siete appassionati di storie di mercanti, vale la pena approfondire la figura di Giacomo Ragazzoni), tessero strettissimi rapporti commerciali con gli inglesi (vi siete mai chiesti da dove arrivano le uvette dei dolci inglesi?) proprio comprando e vendendo uvetta, così richiesta da essere contrabbandata e sottoposta a dazi elevatissimi (fra il 1627 e il 1645 le entrate dell’imposta sull’uva passa oscillavano tra i 45 e gli 83 mila ducati l’anno, mentre gli altri dazi delle isole di Corfù e Zante generavano poche centinaia di ducati). Con il declino di Venezia, inglesi e poi olandesi iniziarono ad arrangiarsi da soli, senza intermediari.
Le tracce storiche confermano che, a differenza del nostro snobismo e del nostro scarso apprezzamento, l’uvetta era amata, ricercata e considerata un ingrediente pregiato. Non a caso entra nella ricetta del panettone, le cui origini altro non sono se non quelle di un pane arricchito, in occasione del Natale, da prodotti nutrienti e preziosi: uova, burro, canditi e appunto uvetta.
Nel vocabolario milanese-italiano in cinque volumi (stampato tra il 1839 e il 1856) Francesco Cherubini così lo descrive “Il Panattón o Panatton de Natal come una Spe[cie] di pane di frumento addobbato con burro, uova, zucchero e uva passerina (ughett) o sultana, che intersecato a mandorla quando è pasta, cotto che sia risulta a molti cornetti. Grande e di una o più libbre sogliamo farlo solo a Natale; di pari o simil pasta ma in panellini si fa tutto l’anno dagli offellai e lo chiamiamo Panattonin”. E a voler riabilitare l’uvetta giungerebbe pure la leggenda (!) secondo cui la nascita del panettone non si dovrebbe a tanto allo stracitato sguattero Toni presso la corte di Ludovico il Moro ma a Ughetto degli Atellani o Suor Ughetta: e, sorpresa sopresa, Ughetto e Ughetta, sono nomi legati al vocabolo che in milanese sta per uvetta: ughett.
L’uva sultanina
Se le origini sono ancora incerte (si pensa possa essere greca, ma anche turca o iraniana. Probabilmente proveniente dall’Asia sudoccidentale, e poi successivamente introdotta nel bacino Mediterraneo orientale) l’etimologia è forse più attendibile: deriverebbe infatti non tanto dal termine “sultano”, quanto piuttosto dalla città della Crimea Sultania, detta anche Soldania o Sudak, in passato importantissimo porto commerciale delle repubbliche marinare italiane Genova e Venezia, e tappa della Via della Seta.
Come dicevamo è una varietà di uva (cioè uva da tavola che appartiene alla famiglia Vitis vinifera), dalle caratteristiche uniche: ha acini piccoli ed ovali. Si tratta di un uva senza semi (per i precisi: è un’uva apirenia, ovvero stenospermocarpia, cioè con semi che si atrofizzano nella maturazione e risultano quindi rudimentali). Cresce su terreni corposi e predilige climi miti e soleggiati: il risultato sono grappoli belli pieni, con acini ovali e polposi, croccanti, dalla buccia sottile e che, a completa maturazione diventano di un bel colore giallo ambrato. L’assenza di semi e il sapore particolarmente dolce sono le caratteristiche che ne fanno preferire l’uso in pasticceria: si può ovviamente mangiare anche fresca, ma l’uso principale è quello nella lavorazione dolciaria.
Quindi, in un dibattito che potrebbe diventare estenuante, dovremmo parlare correttamente di “uva sultanina passa”, indicando così che l’uva passa deriva dalla varietà di uva sultanina.
E quindi, nel panettone?
Se siamo capaci di pipponi memorabili su lieviti, alveoli e maturazioni concentrandoci solo su farine e lievito appunto, cadiamo su tutto il resto. Qualcuno parla mai di uova, burro e canditi? Ed eccoci a noi, allora: che uvetta c’è nel nostro panettone?
A spulciare nel disciplinare del “Panettone Tipico della Tradizione Artigiana Milanese”, la cui ricetta è depositata alla Camera di commercio di Milano, si legge tra gli ingredienti “uva sultanina”. Il panettone tipico, si legge più oltre, “deve contenere non meno del 20% in peso sul prodotto di uvetta sultanina, scorze di arancia candite e cedro candito sull’impasto”.
Bene. A leggere però la definizione che di panettone viene data dal Ministro delle attività produttive nel Decreto 22 luglio 2005 (Modificato con decreto 16 maggio 2017) relativo a “Disciplina della produzione e della vendita di taluni prodotti dolciari da forno” ci si imbatte in questa definizione: “La denominazione ‘panettone’ è riservata al prodotto dolciario da forno a pasta morbida, ottenuto per fermentazione naturale da pasta acida, di forma a base rotonda con crosta superiore screpolata e tagliata in modo caratteristico, di struttura soffice ad alveolatura allungata e aroma tipico di lievitazione a pasta acida. Salvo quanto previsto all’art. 7, l’impasto del panettone contiene i seguenti ingredienti: a) farina di frumento; b) zucchero; c) uova di gallina di categoria «A» o tuorlo d’uovo, o entrambi, in quantità tali da garantire non meno del quattro per cento in tuorlo; d) materia grassa butirrica, in quantità non inferiore al sedici per cento; e) uvetta e scorze di agrumi canditi, in quantità non inferiore al venti per cento;f) lievito naturale costituito da pasta acida;g) sale.