Quando si parla di “tipi di farine” ci si riferisce solamente al grano tenero, e soprattutto alla sola classificazione italiana. Partiamo da questo presupposto per comprendere perché, nella nostra convenzione, si parli di “00”, “0”, “1”, “2” e di farina integrale, assegnando a ogni tipologia specifici usi.
Farine più o meno raffinate, per semplificare, che in base alle loro caratteristiche si prestano a pane, pizza (sì, ma quale?), pasta e preparazioni in cucina.
Oggi proviamo a fare chiarezza sul punto, spiegandovi i “tipi” di farina e come usarli, dalla bianca 00, la più raffinata, alle integrali.
Le tecniche molitorie
Prima di cominciare facciamo un passo indietro, giusto per darvi un po’ di background generale.
Avevamo già trattato le principali tecniche molitorie in un articolo dedicato, ma è bene riprendere qui i concetti principali in modo da partire con il piede giusto.
Nel processo molitorio esistono due tipologie di lavorazione: la molitura a cilindri e la molitura a pietra.
La molitura a cilindri consiste in un certo numero di passaggi (da un minimo di 6/8 ad un massimo di 30), attraverso la rottura e lo schiacciamento del chicco di grano mediante l’utilizzo di macchine chiamate laminatoi (al cui interno ruotano dei cilindri contrapposti a velocità molto elevata) e al contemporaneo setacciamento (in gergo abburrattamento) attraverso delle macchine chiamate plansichter.
La molitura a pietra è molto più semplice di quella a cilindri e si caratterizza per la produzione di farine attraverso un solo passaggio in un mulino al cui interno sono presenti pietre contrapposte che possono girare a velocità variabili (da un minimo di 60/70 giri/minuto ad un massimo di 400 giri/minuto) e al successivo setacciamento o abburrattamento se desiderato; in caso contrario, si ottiene la farina integrale.
Cosa si intende per “tipo di farina”?
Ecco, qui tocca fare la prima grossa precisazione. I processi di molitura introdotti precedentemente valgono per qualsiasi tipo di cereale, dal farro, al grano tenero, al grano duro, alla segale o al granoturco.
E tuttavia, quando sentiamo parlare di “tipo di farina” dobbiamo sapere che ci si riferisce solamente al grano tenero, e soprattutto alla sola classificazione italiana.
Esiste, di fatto, una convenzione specifica in ogni paese atta a distinguere la tipologia della farina.
La legge italiana prevede una classificazione in base al contenuto di minerali e più precisamente alle ceneri, ovvero ciò che rimane dopo aver bruciato la farina (i minerali e i loro ossidi non bruciano).
Più è basso il contenuto di ceneri, più la farina è stata prodotta con il solo endosperma, più è bianca.
E’ possibile distinguere sostanzialmente 4 tipologie: 00, 0, 1, 2 e integrale.
Raffinazione | Umidità max | Ceneri min | Ceneri max |
00 | 14,5% | – | 0,55% |
0 | 14,5% | – | 0,65% |
1 | 14,5% | – | 0,80% |
2 | 14,5% | – | 0,95% |
Integrale | 14,5% | 1,3% | 1.70% |
Questo è uno dei “limiti” spesso riscontrabili nel confronto con altri paesi, la difficoltà di tradurre (nel vero senso del termine) le tipologie di farina e comprendere nel migliore dei modi come realizzare un panificato di pari caratteristiche tecniche, che esso sia da esportare o da importare.
Certo, nel 2020 ormai tantissimi grandi marchi di farine italiane sono ormai reperibili anche all’estero, ma è una situazione relativamente recente e ancora poco diffusa.
Non perché i nostri prodotti siano necessariamente migliori in senso assoluto, sia chiaro, ma per una semplice questione di praticità di riferimento; tante volte mi è capitato di ricevere “richieste di aiuto” di italiani emigrati in altri paesi, che spesso non sanno che pesci pigliare davanti allo scaffale del supermercato.
Purtroppo chi banalizza la risposta sbaglia: non esiste una risposta univoca, perché come abbiamo adeguatamente già spiegato nell’articolo dedicato alla scelta della farina per pizza, ogni farina di ogni tipo di ogni mulino è completamente diversa dalle altre, è non è possibile “convertire” semplicemente una tipologia con un’altra, men che meno in altri paesi dove le caratteristiche tecniche sono differenti.
Se siete davanti a un metodo (come il nostro per teglia romana) che utilizza una materia prima specifica, aldilà di alcune approssimazioni concesse, la cosa più importante è saper conoscere la farina in relazione al prodotto che state per realizzare, senza andare a casaccio prendendo la prima cosa che vi capita a tiro.
Detto questo, vediamo di fare chiarezza tra le principali tipologie di prodotti derivati dal grano tenero, distinguendo anche gli utilizzi più comuni.
Piccola premessa: per comprendere meglio ciò che segue è fondamentale che diate un bel ripasso al nostro articolo sulla scelta delle farine da usarsi in base alla pizza che si vuole ottenere; questo perché, per quanto sia possibile dare indicazioni di massima per associare una tipologia a un prodotto da forno, la bontà del risultato dipende per il 75% dalle caratteristiche tecniche della farina, non dal suo abburattamento.
Ad esempio, non è vero che per la pizza va bene qualsiasi 00.
Prima di poter scegliere la materia prima vi manca qualche informazione fondamentale. Che tipo di pizza? Qual è l’idratazione scelta? Quanta forza ha la farina? Qual è la sua capacità di assorbimento minimo?
Lo stesso ragionamento è da farsi per qualsiasi ricetta, dalle torte ai panettoni, dalle piadine al pane.
La farina 00 e la farina 0
Ormai lo saprete, su Dissapore siamo anticonformisti, e adoriamo smontare una bufala dietro l’altra.
L’inesattezza più grande che avrete sentito (e che sentirete) spesso dire è che la farina 00 è più debole ed è adatta ai dolci, mentre la 0 è più forte ed è adatta ai panificati.
Mai frase fu più errata e funesta.
Per darvi un’idea, uno dei mulini dai quali acquisto più abitualmente ha una 00 di forza 320 e due 0, una di W 280 e una di W 220.
La verità è che tra le due tipologie cambia veramente pochissimo, come riassunto anche dalla tabella precedente: un semplice 0.1% di ceneri, spesso anche meno.
Ai fini pratici in realtà queste due fasce di prodotti si prestano agli stessi utilizzi, motivo per cui ho deciso di includerli nello stesso paragrafo.
00 e 0 sono le cosiddette farine bianche, le “raffinate”, adatte a prodotti che necessitano di equilibrio e di leggerezza nel gusto, e dove la poca parte cruscale evita di interferire con la maglia glutinica e con l’espansione.
Sono consigliabili quindi nella maggior parte dei dolci, come le crostate, le torte soffici, i plumcake, prodotti che solitamente presentano altri ingredienti e che richiedono molta espansione seppur presentino glutine quasi nullo.
Al tempo stesso sono utilizzabili nella pizza napoletana, che deve essere stesa in maniera sottile e risultare estensibile, e dove l’apporto di sapore dato da farine meno raffinate non sarebbe particolarmente percepibile.
Infine sono le materie prime più diffuse nella produzione di focaccia e pizza al trancio, dove tipicamente l’espansione e l’equilibrio della mollica dall’alveolatura fine e distribuita sono indice di qualità e bontà del risutato; crusca e fibre presenti nelle farine integrali e semi-integrali, nonostante il profilo nutrizionale migliore, trattengono l’umidità e ostacolano in parte la formazione del glutine. Ciò che otteniamo è una focaccia morbida e con una shelf-life (durata) più lunga grazie all’umidità residua, però meno espansa e leggera, perché le fibre conferiscono un senso di sazietà maggiore.
La farina di tipo 1
Con la farina di tipo 1 inizia il mondo delle cosiddette semi-integrali, farine a metà strada tra le bianche e le integrali pure.
La parte cruscale inizia a essere visibile a occhio nudo, piccoli puntini all’interno della materia prima, e i prodotti migliori hanno spesso anche un profilo organolettico ben distinguibile anche solo dal sacco aperto, che comincia a svilupparsi mano a mano che l’acqua viene assorbita.
I complessi aromatici derivati da questi prodotti, uniti ad una buona capacità di formare un glutine resistente ne fanno la scelta migliore per preparazioni come la pizza in teglia romana o il pane casereccio, dove tali differenze sono sicuramente apprezzabili.
È bene sottolineare tuttavia che oggi, con l’avanzamento tecnologico delle tecniche molitorie, alcuni professionisti sono in grado di ottenere per le farine di tipo 1 una resa molto simile a quella delle raffinate grazie al condizionamento del grano (ovvero il grano viene bagnato e fatto riposare prima della macinazione) in modo da rendere più facile il distacco dell’endosperma dalla parte corticale.
In questi casi è quindi possibile utilizzare con grandi risultati le farine di tipo 1 per le stesse preparazioni, come dolci, focacce e napoletane, sebbene in quest’ultimo caso il contributo di sapore possa essere irrilevante a causa della sezione infinitesimale.
La farina di tipo 2
Avvicinandosi all’integrale, la capacità di formare una struttura solida inizia a decrescere, e con essa la possibilità di reggere per molte ore la forza esercitata dai gas prodotti dalla lievitazione.
Questo perché la crusca costituisce, di fatto, un vero e proprio peso sulla maglia glutinica.
Le materie prime migliori tuttavia sono in grado di regalare apporti aromatici stupendi, spesso ravvisabili in prima battuta dal colore tendente al giallo aranciato delle farine, indice della presenza di carotenoidi.
L’utilizzo più consigliato è senza ombra di dubbio il campo del pane, sebbene sia possibile ottenere delle ottime pizze o dolci “spezzando” farine più raffinate con le sorelle più saporite, in modo da ricavare un prodotto con le giuste caratteristiche di struttura che sia però al contempo ancor più gustoso e saporito.
La farina integrale
Siamo arrivati al culmine, alla farina che avrà il massimo contenuto di ceneri perché tutto il chicco è stato utilizzato e sarà più scura.
Purtroppo anche in questo frangente la disinformazione è piuttosto elevata.
La farina 00 viene considerata come un veleno da evitare; l’integrale al contrario è osannata e consigliata da schiere di dietologi improvvisati, un fattore che inevitabilmente permette l’immissione sul mercato di prodotti scadenti, finti, ricostruiti e pieni di miglioratori chimici a scopo di ovvio lucro.
A prescindere dalla capacità del consumatore medio di fare la spesa in modo sensato il fulcro dell’attenzione deve essere il risultato, non la raffinazione della materia prima.
Tenete conto soprattutto del grosso limite tecnico delle farine integrali: la difficoltà di creare, se utilizzate in purezza, un prodotto espanso, aperto e di conseguenza leggero, dove il calore possa entrare nella maniera migliore asciugando l’umidità in eccesso e consentendo al panificato di durare più a lungo una volta cotto.
Se utilizzate male, il risultato sarà umido, crudo e, di conseguenza, meno digeribile di un’ottima pizza fatta con una “semplice” 00.
Come per la tipo 2, i migliori campi di utilizzo sono quelli del pane e di qualsiasi altro farinaceo, pur prevedendo una base di materia prima più raffinata per conferire la giusta struttura, fondamentale per la bontà del risultato.
Come sempre, meno luoghi comuni e più metodo.
La farina Manitoba
Non una vera e propria tipologia, ma senza dubbio un altro grande ambito di disinformazione e leggende metropolitane, su cui ci pare giusto dare qualche indicazione di massima.
La farina Manitoba nasce nelle fredde lande canadesi, in Nord America, dall’omonima regione del Manitoba. Si tratta di una farina di grano tenero proveniente da una spiga particolare che, a causa del duro regime climatico, si è evoluta in forma particolarmente resistente.
Una farina molto forte, con un’alta percentuale di proteine, che in Italia giunse negli anni ’50 a Milano e che iniziò ad essere utilizzata per la produzione di due prodotti particolari: il panettone e la michetta.
Oggi in realtà con “Manitoba” si intende genericamente qualsiasi farina di grano tenero di tipo 00 o 0 con una forza elevata, superiore ai 360 W, anche se i grani utilizzati sono al 100% italiani.
Per cosa usarla?
Per i grandi lievitati, per i pani soffiati, per pizze a lunga lievitazione, ad alta idratazione e che utilizziate per spezzare percentuali minori di farine integrali o semi-integrali.
Le altre farine
E il farro, la segale, il grano duro?
Come già specificato, le tipologie sono prerogativa del solo grano tenero; per tutti gli altri cereali macinati solitamente si distingue tra “farina bianca” e “farina integrale”, semplicemente differenziando tra una materia prima setacciata e una macinata e (per così dire) messa nel sacco.
Le stesse prove tecniche effettuate dall’Alveografo di Chopin (ne abbiamo a proposito delle farine ideali da utilizzare in base alle tipologie di pizza) non sono attuabili con cereali simili, troppo deboli perché sia possibile ricavare tutte le caratteristiche reologiche necessarie per classificare le farine come accade per il grano tenero.
Vale quindi un discorso simile a quello delle integrali: divertitevi con il pane, lavorate il più possibile in accordo con il risultato cercato spezzando all’occorrenza con materie prime che possano garantirvi una struttura, utilizzando tali cereali per conferire un grosso apporto di sapore che (specialmente nel caso della segale, del farro monococco e di tante tipologie di grano duro), sono a dir poco paradisiaci.
Ah, mi chiedete in tutto ciò come si classifica la semola?
Per “semola” si intende comunemente il prodotto della macinazione del grano duro, altresì denominato sfarinato di grano duro; viene usata sia per la panificazione che per la pasta alimentare, e che quindi rientra tra le tipologie incluse in questo paragrafo.
Nella semola i granelli sono visibili e percepibili al tatto, al pari dello zucchero semolato; è possibile classificarla in base alla granulometria:
- Semola grossa (600-800 micron);
- Semola media (400-600 micron);
- Semolino (0-300 micron);
- Semola rimacinata dove, a seconda delle dimensioni dei granelli, le dimensioni che variano da 0,3 a 1,5 mm.
Nella panificazione il prodotto di riferimento è il rimacinato, contraddistinto dal caratteristico colore giallo ambrato proprio della semola ma con una granulometria meno accentuata, e che viene utilizzato in purezza o in miscela con farine di grano tenero.