Ancora ricordo l’accesa discussione avuta, anni fa, a tavola con Mr. Paul, discendente di Edmund McIlhenny: voleva a tutti i costi convincermi che il Tabasco, inventato dal suo illustre antenato più di un secolo prima, fosse l’ingrediente tipico delle penne all’arrabbiata. E io a spiegargli che no, noi usiamo i peperoncini tal quali, freschi o secchi che siano, il Tabasco è troppo aromatico e l’aceto presente nella salsa fa a pugni con il pomodoro del sugo, portando l’acidità del piatto a livelli eccessivi per una pasta.
“E allora, per cosa lo usate in Italia?”, insisteva, forse conscio della fetta di mercato che il nostro Paese rappresentava per le sue esportazioni. Allora, non seppi dirgli altro che per il gazpacho e il Bloody Mary, e alla sua obiezione che non erano ricette italiane non potei controbattere.
Per fortuna, quando iniziò a parlare di pepperoni pizza la cena era finita e la tavolata poté sciogliersi. Non senza la promessa, da parte mia, di informarmi, sperimentare e fargli sapere.
La storia, quella vera
Le vicende legate alla nascita del Tabasco si legano alla storia americana, quella vera. Iniziano in Louisiana ad Avery Island, allora isola, oggi collegata alla terraferma per il ritrarsi dei bayou, le formazioni paludose della piana del Mississippi.
È in uno degli appezzamenti della tenuta che, intorno al 1860, Edmund McIlhenny, esponente della borghesia benestante della Louisiana con la passione per la botanica, pensò di seminare certi peperoncini piccanti di origine centroamericana.
Poi, arrivò la guerra di secessione e il raccolto, giocoforza, venne abbandonato a se stesso, la famiglia McIlhenny “sfollata” in Texas. Al ritorno, nel 1865, le piante inselvatichite si erano diffuse per tutta l’isola e vivevano felici e rigogliose come mai. Un certo fiuto per gli affari, coniugato a una passione per la buona tavola, spinse Edmund a utilizzare quella crescita miracolosa per creare una salsa: il Tabasco.
Come si fa il Tabasco
Non sto qui a raccontarti come, in qualcosa più di 150 anni, Tabasco è diventato il successo planetario che è, conosciuto e utilizzato in ogni angolo del mondo. Tuttavia, ho imparato cose interessanti visitando campi e stabilimenti su Avery Island, ancora oggi sede dell’azienda.
Ci andai in viaggio stampa. Erano i primi anni Duemila, quando a noi giornalisti le aziende proponevano roba seria. Così, mi capitò di ricevere l’invito a visitare la fabbrica del Tabasco. Che per una spicy addicted come la sottoscritta era un po’ come per i bambini vincere i biglietti per la fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Tanto che quell’educational (che così si chiamano i nostri faticosi viaggi di lavoro) mi è rimasto nel cuore.
Ospite, appunto, di Paul C.P. McIlhenny in persona, discendente del fondatore Edmund (Mr. Paul era esattamente come ti saresti aspettato essere il boss di una family company del sud degli Stati Uniti: imponente e robusto come la saga che rappresentava, iniziata nella seconda metà dell’Ottocento).
Ebbene, il metodo di produzione è cambiato molto poco dai tempi di Edmund.
I peperoncini colonizzano ancora buona parte della tenuta in Louisiana. Naturalmente, il raccolto in questo sito non sarebbe mai sufficiente ad alimentare la produzione destinata al mercato mondiale, per la quale si parla di qualcosa come 50 milioni di bottigliette all’anno. Così, dai peperoncini dell’isola sono estratti i semi, trasportati e seminati in terreni di proprietà sparsi per l’America Centrale.
Sono i frutti di queste coltivazioni a essere riportati sull’isola, dove sono lavorati insieme a quelli delle tante altre varietà usate per le diverse ricette targate Tabasco: dal jalapeño verde al chipotle per la salsa affumicata all’habanero superhot.
La magia prosegue con la fermentazione dei peperoncini: miscelati al sale locale (Avery Island sorge su una salina), sono chiusi in botti di rovere che sono ex botti da whiskey. Neanche a dirlo, le botti rilasciano sentori di legno e del distillato che contenevano.
Quando, dopo un riposo di tre anni, vengono aperte e si elimina il tappo superficiale di sale, ne esce un composto che schiuma e pare quasi sfrigolare, da vicino brucia gli occhi e la gola. Questa pasta fermentata è mescolata con aceto, sottoposta a un secondo riposo, infine filtrata, imbottigliata e spedita all over the world.
Alla fine del processo resta, come è ovvio, uno scarto. Ma il peperoncino è come il maiale e non si butta via nulla: la polpa e i semi rimasti dalla lavorazione vengono seccati e macinati in polvere, che andrà a insaporire i prodotti “al Tabasco”, come le patatine, o anche usata così com’è per una ricetta che ti racconto fra poco.
La ricetta locale
Il mattino dopo la famigerata cena, avevamo appuntamento al molo per una gita in barca. Appena messo piede a bordo, trovai subito conferma alle mie affermazioni perché mi fu messo in mano un Bloody Mary di benvenuto davvero spicy e davvero carico anche di alcol, soprattutto per le dieci del mattino. Bastarono uno o due sorsi perché io e Mr. Paul tornassimo amici come prima.
L’escursione aveva come meta la palafitta di famiglia nei bayou, raggiunta nell’ultimo tratto con un airboat, imbarcazione anfibia a elica che saltava dall’acqua ai canneti a velocità considerevoli. Arrivati a destinazione, una casetta costruita su pali in perfetto stile “Un tranquillo weekend di paura” con tanto di orchestrina cajun, un manipolo di cuochi accaldati stava preparando il pranzo.
Su fuochi da campeggio troneggiavano pentoloni d’acqua in cui erano disciolte manate della magica polverina di cui ti dicevo, prodotto di scarto della lavorazione del Tabasco. Accanto, grosse ceste ricolme di crawfish, i rossi gamberi di fiume tipici della Louisiana, vivi e saltellanti finché, con le solite manate, non venivano gettati nei calderoni.
Nei pochi minuti sufficienti a cuocere le carni dei crostacei, queste si impregnavano del liquido infernale diventando deliziosamente piccanti. E non sto a dirti quanti Bloody Mary dovetti bere per stemperare il tutto, senza riuscirci mai.
Per la cronaca, il condimento in polvere targato Tabasco, in versione pesce, carne e “all-purpose”, si acquista in rete e, ragazzi, è davvero qualcosa. Da sperimentare in salse e rub, con fantasia.
Dove si può usare il Tabasco
Tornando alla salsa, se sono ancora convinta che no, con la pasta all’italiana non ci sta molto bene, lo stesso non si può dire per i noodles asiatici, siano saltati nel wok o cucinati in brodi, ramen e hot pot.
Prova a unirne qualche goccia nel riso fritto all’orientale, nel condimento della paella spagnola, in un pilaf speziato con curcuma o curry mild.
Stemperala in vinaigrette e citronette per dare un twist alla più banale delle insalate ed esaltare quelle che contemplano varietà piccantine e aromatiche: crescione, shiso, foglie di senape (sperimentate di recente, una bomba!), ruchetta.
Aggiungila ai contorni di verdure spadellate: peperonate, ratatouille, melanzane al funghetto, zucchine a scapece… Insomma, vedi un po’ tu.
Stillala sulle uova: gocce che tingono di rosso il tuorlo all’occhio di bue o quello alla coque, l’albume tremolante di un uovo in camicia, i morbidi grumetti delle scrambled eggs. E usala nel composto delle frittate, tutte indistintamente.
Non può mancare nelle tartare, siano di carne o di pesce, per le quali trovo particolarmente indovinata la versione chipotle con quel bel tocco smokey, e nei ceviche, dove preferire la verde che ben si accorda agli immancabili lime e coriandolo del pesce crudo sudamericano.
Prova tutto quel che ti ho suggerito e, forse, finirai per fare come quell’amica che porta sempre una bottiglia in borsetta, che non si sa mai. Sono certa che, quando la estrae di sottecchi al ristorante, spargendo pioggerelline piccanti sui piatti, di nascosto da camerieri e chef… Beh, sono certa che Mr. Paul, che ci ha lasciati nel 2013, la guarda da lassù. Ed è fiero di lei.