Non dico nulla di nuovo, ma se c’è un lato positivo riguardo al fatto che l’etichetta “food” stia bene su qualunque cosa, commestibile e non, sono le opportunità per chi, come me, di “food” ci campa. Per esempio il fatto che tra un comunicato che annuncia di aver lanciato il salame nello spazio e quello che loda le magnifiche sorti e progressive del nuovo temporary store del panino al Philadelphia, arrivino storie come quelle di Sulayman, il cuoco del Gambia arrivato col barcone a Lampedusa che ho conosciuto qualche giorno fa a Torino.
Sì, è uno di quegli articoli sull’integrazione.
L’accoglienza strutturata, cosa succede quando la si fa bene
Sulayman me lo hanno presentato quelli della cooperativa La Valdocco, che si sono inventati il progetto Food Lab. Ma andiamo con ordine: ricevo questa mail, leggo di un corso di cucina per rifugiati a Torino, città dove trascorrerò il prossimo fine settimana. Così, tra uno speciality coffee da Orso, il caffè più gastrofighetto di Torino (cit. Cavalleris) e l’ennesimo tentativo velleitario di andare a visitare Venaria (che puntualmente nemmeno questa volta vedrò), decido di inserire nell’itinerario anche un salto in Corso Racconigi, non proprio il centro pulsante della movida torinese: solo vecchi fasti sabaudi lasciati andare, bar senza pretese e un sedicente “Autlet” di elettronica.
In Corso Racconigi, al 143, però si trovano un ostello, qualche appartamento e un laboratorio professionale di cucina. Fanno tutti parte del lavoro di Cooperativa animazione Valdocco, un consorzio di cooperative che si occupa tra le altre cose di accoglienza straordinaria in piccoli gruppi e di progetti di accoglienza strutturata per cittadini stranieri che consenta alle persone di entrare in contatto con la comunità locale e che li guidi fino all’inserimento abitativo e all’autonomia lavorativa.
Sulayman ed è arrivato ad Alpignano (TO) ed è stato inserito in uno di questi progetti della Valdocco in collaborazione con missionari della Consolata.
La storia di Sulayman dal Gambia alla Libia
Sulayman è in Italia dal 2015 e l’italiano lo mastica molto bene, è solo un po’ timido e parla con un filo di voce. Ha fatto la scuola coranica in Gambia, dove è nato, e poi ha trovato lavoro facendo il cuoco in un grande albergo a Senegambia, l’oasi turistica sull’Atlantico. La sua storia è semplice, eppure per un gioco del destino si è trovato, suo malgrado, nel mezzo degli eventi che stanno facendo la Storia, quella che finirà nei sussidiari.
Quello che guadagnava in Gambia non gli bastava, per sé voleva qualcosa di più e anche per i venti componenti della sua famiglia. Così a vent’anni è partito con altri amici più o meno coetanei guidando una macchina attraverso il Senegal, il Mali, il Niger e poi la Libia. Non ci pensava all’Italia, gli avevano detto che in Libia c’era da lavorare.
A me questo on the road nell’Africa centro occidentale piace immaginarmelo abbastanza spensierato, sorrido anche al racconto di Sulayman che una volta arrivato in Mali ha cominciato ad avere a che fare con una cucina e con dei sapori che non erano i suoi (mi dice che in Mali bevono delle bibite schifose).
Solo che quando è arrivato in Libia sono cominciati i problemi: nonostante avesse già pagato in Niger per varcare il confine, è stato preso da altri trafficanti e costretto a pagare ancora e poi è rimasto chiuso a chiave in alloggi di fortuna con la compagnia notturna delle bombe e degli spari. Così ha deciso che non era la Libia il paese in cui si sarebbe fermato e che voleva proseguire verso l’Italia. Ha fatto il muratore perché aveva finito i soldi, e ha messo da parte quello che gli è servito a rifondere gli amici che gli avevano prestato i soldi per i trafficanti e a pagare per il viaggio da Sebha a Tripoli e poi da Tripoli a Lampedusa. In tutto ha speso circa 2000 euro, più le spese.
E non è un modo di dire, che quando viaggi con i trafficanti il vitto lo devi portare con te, stipando i cambi e quello che ti serve per sopravvivere in un piccolo zaino, perché sulla macchina si è in tanti e non c’è spazio. Quando finiscono le provviste (di solito biscotti e una bottiglia di latte) si deve sperare che la fermata successiva sia nei pressi di qualche abusivo che vende anche ai clandestini, se no digiuno. A Sulayman è successo due giorni di fila, alla fine è svenuto.
Uno dei momenti che mi racconta con maggiori dettagli è la permanenza di una settimana in un villaggio sul Mediterraneo in attesa che ci fosse il mare buono per partire. Un suo amico, preso dallo sconforto e dalla paura del naufragio, ha tentato la fuga tagliandosi un piede sui cocci di vetro che i trafficanti mettono sui muri per impedire a chi vuole partire di cambiare idea.
I laboratori di cucina narrativa
Arrivato sano e salvo ad Alpignano quelli della Valdocco gli propongono dei laboratori di cucina narrativa: gli ospiti raccontano i loro piatti preferiti agli altri ospiti, e poi, in qualche occasione, questi piatti si realizzano e si fanno assaggiare ai piemontesi durante degli eventi ad hoc.
Non è affatto difficile pensare che l’unica cosa che hanno in comune un Siriano, un Marocchino e un Gambiano sia il fatto di non voler mangiare la pastasciutta tutti i giorni. Sulayman mi dice che di pasta non ne poteva più, e a me viene in mente il mio amico dottorando che nasconde il prosciutto nella valigia perché a Londra non può vivere senza i sapori di casa sua.
Ma Sulayman, a differenza del mio amico, è anche uno chef: così si mette a preparare il suo piatto preferito: il Domodà, carne di vitello saltata nell’olio rosso di palma, con manioca, okra e burro di arachidi che va servito con il riso bollito. Gli domando dove si approvvigioni perché do per scontato che da bravo chef voglia farsi la spesa: mi dice ovviamente che dai cinesi si trova tutto.
Nelle case di accoglienza della Valdocco è la norma che si cucinino i piatti degli ospiti, d’altronde la cucina è un modo abbastanza immediato di fare famiglia.
Le sue doti di cuoco però si fanno notare, e prima lavora con chef Kumalè che al tempo collaborava con la Valdocco per portare in Piemonte il suo progetto “nati per soffriggere”, poi fa uno stage al Birilli, il ristorante di Chiambretti in collina. Lo tengono, ma il contratto che gli propongono non lo soddisfa e così, con lo stesso ardire che lo ha condotto in Italia, rifiuta un contratto e cerca un altro lavoro. Sempre grazie ai contatti con la Valdocco lo trova: oggi è sous chef al Barbiturici di Torino, si paga un affitto in centro e vive da solo.
Cosa è Food Lab
Da considerazioni su questa esperienza è nato il Food Lab, una cucina professionale che ha visto la luce quest’anno nell’ostello in Corso Racconigi 143. Tra le altre cose ci si fa un corso di cucina di 50 ore in cui sono ammessi tutti quei cittadini stranieri ospiti della Valdocco che lo desiderano. C’è chi lo fa perché non parla ancora la lingua e il cibo è il suo unico modo per comunicare, e chi lo fa perché di cucina ne sa già e vorrebbe trovare un lavoro in Italia. Per questi ultimi la cooperativa propone una serie di tirocini.
E’ un corso di cucina biunivoco: gli chef sono italiani ma insegnano solo le tecniche base, poi ogni corsista propone un piatto del suo paese e tutti, gli chef docenti compresi, imparano a farlo. In questo modo i dumpling di verdure del Food Lab pare siano tra i migliori di Torino. Dico pare perché speravo di ordinare un paio di ravioli, ma la somministrazione al dettaglio al pubblico, magari anche solo quello dell’ostello è solo un sogno al momento, che auguro loro di realizzare. Col Food Lab invece si possono fare eventi e catering, e i soldi che la Valdocco ci guadagna li reinveste nel suo progetto sociale: Valdocco ha inserito dal 2015 ad oggi circa una trentina di cittadini stranieri a lavorare nella ristorazione.
P.s.: Con il decreto Salvini (il Decreto Sicurezza), un’accoglienza di questo tipo a persone come Sulayman non potrà più essere fatta: queste forme di accoglienza strutturata sono garantite solo ai titolari di protezione internazionale e non anche ai richiedenti, come era prima. Dunque Sulayman avrebbe dovuto passare un lunghissimo anno o addirittura due in un “centro di accoglienza straordinaria” (che di per sé è già un ossimoro) in attesa di uno status, altro che lavoro.