Personificazione stessa del Carnevale, cibo di strada secolare, comfort food spugnoso e zuccherato nelle rigide giornate invernali, traghettatrice fritta dai lievitati natalizi a quelli pasquali, la frittella veneziana non è classificabile come un banale “dolce tipico” ma assurge a modo di essere e di vivere la città, classificatore di personalità e rivelatore di caratteri, ben oltre i gusti gastronomici e le preferenze individuali. A tracciarne la storia, l’errore più grande che si possa commettere è quello di liquidarla semplicemente come appartenente alla grande categoria dei “cibi fritti”, che dai Romani in poi attraversano secoli e tradizioni regionali declinati in decine di varianti.
Per arrivare alla sfera dolce lievitata e piena, arricchita da pinoli e uvetta di oggi, infatti, la strada inizia sì in epoca romana, ma trova subito una sua identità unica. Ecco quindi la storia della fritola veneziana, per affrontare in modo scientifico il Carnevale.
Conosciuto più per la sua “delenda Cartago” e il suo ruolo politico che per le sue competenze in ambito gastronomico, Marco Porcio Catone è probabilmente il primo a redigere una ricetta di frittelle. Lo fa nel suo “Liber de Agricoltura”, dove parla di “Globulos sic facto” (“I globi si fanno così”): seppur diversa da quella odierna, contiene in sé i prodromi di quella che verrà. “Per fare i globi – spiega Catone – mescola insieme cacio e alica in quantità uguali; poi fa i globi della grossezza che vuoi: Tuffali nel grasso bollente in una padella di rame. Cuocili uno o due per volta e rigirali spesso con due palette; quando sono cotti, toglili, spalmali di miele, spolverali di [semi di] papavero e servili così.”.
A condurre progressivamente i globi verso una versione più simile a quella odierna gioca un ruolo fondamentale il mondo arabo: nella seconda metà dell’XI secolo vive infatti a Baghdad un personaggio interessante, Jazla, cristiano convertito all’Islam. Tra i diversi trattati di cui è autore, uno – mastodontico – intitolato più o meno “Cammino della spiegazione di tutto ciò che l’uomo utilizza” contiene due ricette, la Zelabia e la Zelabia alia (“un’altra zelabia”).
Dobbiamo a Giambonino da Cremona, che visse attorno al 1200 e che fu medico e buongustaio, la spiegazione di cosa fosse la zelabia. Nel suo “Liber de ferculis et condimentis” (“Libro di cucina e condimenti”), traducendo in latino dall’arabo una serie di ricette di Jazla, riporta due procedimenti. Secondo il primo ““Zelebia è migliore delle mandorle confette e di chataiff; ed è digeribile ed è giovevole alla tosse umida ed è anche buona per il petto e per i polmoni, e riscalda un poco e il suo danno si rimuove con melograne o con uno scippo agro, e provoca vapori nei condotti del fegato. E si fa così: lavora ovvero impasta bene una pastella – e falla con il lievito – e dividila in porzioni gettandola con un cucchiaio in una padella dove ci sia olio o strutto, e friggila bene e poi mettila in un recipiente dove ci sia miele, e dai a chi vuoi”. Il secondo è quello della Zelebia alia “Zelebia alia cioè un’altra e si chiama zelebia ripiena. E si fa così: prendi la pasta e lavorala con il latte e fai con essa focacce o frittelle, e impastaci dentro mandorle pestate e zucchero e un poco di canfora e fai cuocere in olio disamini [di sesamo] o altro olio o strutto; poi metti nel giulebbe e servi.”.
Il volume di Giambonino, noto a Venezia, fece conoscere in città la cucina arabo-persiana ma la versione delle frittelle/zelabie non uscì dall’area lagunare. Nei più noti ricettari medievali prima e rinascimentali poi, infatti, non si trova nulla di analogo.
Nell’opera monumentale di Maestro Martino, quel Libro de Arte coquinaria che rappresenta uno dei testi fondamentali della storia gastronomica italiana, tra le venti ricette riportate dal cuoco cardinalizio (coi fiori di sambuco, di riso, salvia, mele, foglie di lauro, mandorle, carne di gallina, erbe amare, riso, fichi secchi, pesce) solo una assomiglia alla veneziana, ma sempre nel solco di quella di Catone: Martino descrive infatti le “frittelle di ciochate”, con farina, albume d’uovo, zucchero, acqua di rose, latte e giuncata (formaggio fresco).
Dobbiamo ad un medico bellunese, Andrea Alpago, il primo riferimento codificato della frittella, “frittola”, per essere precisi, che per la prima volta lega la ricetta alla zelabia araba. Nel suo Interpretatio arabicorum nominum” stampato a Venezia nel 1527 Alpago, inviato da Venezia a esercitare l’arte medica nella comunità veneziana di Baghdad si trova il termine Alzelabia (oltre ad Alzelabi e Zelabile) così spiegato: “Az- zilābiyà è una pietanza di pasta molto tenera a forma di luna, che viene fritta nell’olio, quindi mangiata con miele o zucchero. Molto diffuso in Egitto e in Siria [questo cibo] assai spugnoso può essere più o meno spesso o sottile nei diversi punti. Tale preparazione, di cui si parla nel libro Minhāju ‘l bayān, presso gli abitanti dell’Italia è chiamata ‘frittola’”. Ci siamo. Le fritole note a Venezia dai tempi di Giambonino sono uscite dalla città e si sono diffuse. Sarà poi Bartolomeo Scappi, cuoco di cardinali e papi, nella sua Opera (1570) a darne risalto e contribuire alla sua diffusione.
Nel libro V, al capitolo CXXXVI, ecco la ricetta, preparata con “quattro oncie d’acqua rosa, et un poco di zafferano, et sale a bastanza”,cui andavano aggiunge 24 uova fresche, “due libbre di farina, sei oncie di butiro fresco, et quattro oncie di zuccar”. Dato il ruolo di Venezia quale porta con l’Oriente per i traffici commerciali, i secoli successivi segnano l’aggiunta di uva sultanina e pinoli. Il successo è tale che nel ‘600, si regolamenta produzione e vendita delle frittelle con una corporazione specifica, la Confraternita dei fritoleri, appunto. La mariegola, cioè lo statuto, prevedeva che ”Ai fritoleri spettava il ius di vender qualunque frittura, sia polpette, raffioli et altre fritture aspettanti al detta arte in pastela, in oglio et untumi”. Esistevano 70 posti fissi assegnati: i fritoleri potevano lavorare solo nel periodo carnevalesco, che andava dal 26 dicembre al martedì che precede l’inizio della quaresima e il mestiere si tramandava di padre in figlio. Per capirne la rilevanza basti sapere che solo in assenza di eredi il gastaldo dell’arte provvedeva a scegliere il sostituto, poi sottoposto all’approvazione della Giustizia Vecchia. Lo storico e nobiluomo veneziano Pietro Gaspare Moro Lin racconta che: «Hanno sempre sul davanti un pannolino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra venuto allora fuor dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla mercie, ma con tal atteggiamento che par vogliano dire: e chi sente l’odore e il sapore di questa cosa che noi inzuccheriamo?”. Questi maestri del fritto se ne andavano ambulanti per le calli o nei campi (per poter friggere all’aperto l’Arte stanzia una somma altissima) o lavoravano dentro “baracche di legno di forma quadrangolare”, impastando “la farina sopra ampi tavolati per poi friggerla con olio, grasso di maiale o burro, entro grandi padelle sostenute da tripodi. A cottura avvenuta, le frittelle venivano esposte su piatti, variamente e riccamente decorati, di stagno o di peltro. Su altri piatti a dimostrazione della bontà del prodotto, venivano esibiti gli ingredienti usati: “pignuoli, uvette, cedrini”. Il più noto fritoler è tal Zamaria, ritratto in uno di quei volumi che celebra i mestieri di un tempo: tra fumi di olio bollente, la vignetta che ne accompagna il lavoro recita “Su le sagre, e spesso anca in altri luoghi, fritolazze mi vendo col zebibo (zibibbo)”.
Le frittelle a teatro e nell’arte
A conferma di un mestiere rilevante nell’economia cittadina e dell’amore dei veneziani per le frittelle, che attraversa le classi sociali, oltre ai riferimenti gastronomici, ci sono anche quelli letterari ed artistici. È ovviamente Carlo Goldoni, commediografo veneziano, a immortalare venditori e venditrici di frittelle. Nel “Il Campiello” troviamo Orsola, che rivendica che fare frittelle “la xè una profession”.
Mentre spetta a Pietro Longhi, abile ritrattista della vita quotidiana del ‘700, in particolare del ceto aristocratico, dipingere un nobile che acquista le fritole da regalare a due belle fanciulle, infilzate su uno spiedo e donate come un mazzo di rose.