Storia della vaniglia e dello schiavo che la inventò

La spezia più costosa del mondo deve essere impollinata e questo fatto (che di per sé pochi conoscono), segna l'invenzione della vaniglia. Anche perché non basta un'ape qualunque.

Storia della vaniglia e dello schiavo che la inventò

Tutti apprezziamo l’aroma della vaniglia – tutti o quasi perché c’è chi non lo sopporta, quorum ego – ma ecco insomma almeno tutti ce l’abbiamo ben presente l’aroma della vaniglia: uno dei profumi più delicati e allo stesso tempo più riconoscibili che ci siano. Tutti abbiamo anche ben presente il preziosissimo baccello, anche se in pochi abbiamo avuto l’opportunità di maneggiarlo; in casa è molto più frequente ricorrere a una vanillina, la molecola principale della vaniglia, sintetizzata in laboratorio o ricavata da altre piante. Nella produzione professionale di dolci però la vaniglia naturale è ancora molto ricercata, o forse sempre più ricercata. 

Nessuno però, o quasi nessuno, conosce la vera storia della vaniglia: la sua origine, e la clamorosa scoperta che ha reso possibile la sua coltivazione di massa a partire dall’800. Grazie a un ragazzino nero di dodici anni, un piccolo schiavo. Scrivere dei titoli acchiappaclic come “Lo schiavo che inventò la vaniglia” dà il buffo vantaggio di dover spiegare che c’è ovviamente dell’esagerato, ma c’è del vero. Di sicuro non si può dire che la vaniglia sia stata “inventata”. E a essere precisi neanche è giusto dire che sia stata scoperta nell’800: dagli europei era stata conosciuta in seguito alla colonizzazione dell’America, e dai nativi di quel continente per molti e molti secoli addietro. 

Indubbiamente però fu il piccolo Edmond, giardiniere aspirante botanico dell’isola di Réunion, colonia francese, che mise a punto un metodo pratico per impollinare manualmente la vaniglia: una necessità fino a poco tempo prima sconosciuta. Lo schiavo Edmond, che per la sua scoperta assurse finanche all’onore di avere un cognome, Edmond Albius (cioè bianco, in riferimento al fiore della pianta di vaniglia, nome non privo di un’ironia crudele chissà quanto involontaria). La sua storia è raccontata in un libro, un romanzo di Gaëlle Bélem, anche lei nativa di Réunion, che tutt’ora è colonia, pardon territorio d’oltremare, francese. Si chiama Il frutto più raro, è appena uscito per e/o editore, tradotto da Alberto Bracci Testasecca.

La storia della vaniglia

copertina del libro

La vaniglia è un’orchidea originaria del Messico: cresce spontaneamente nelle foreste tropicali umide della costa orientale. I suoi frutti sono delle capsule allungate – non sono propriamente baccelli anche se tutti li chiamano così, pure noi prima – che contengono quei semi che dopo una lunga e complessa lavorazione esprimono l’inconfondibile aroma. Per quanto complesso, il procedimento era stato già messo a punto dai Totonachi, popolazione originaria dell’attuale zona di Veracruz, in Messico. Dai Totonachi l’uso passò agli Aztechi, che usavano la vaniglia per aromatizzare la loro bevanda al cacao, e poi agli invasori spagnoli, che la portarono in Europa.

Fu un successo mondiale, come accadde a molte spezie tropicali: ma questa spezia aveva un problema, che se da un lato ha permesso agli spagnoli di mantenerne  il monopolio per secoli, dall’altro non consentiva di produrne più di tanta, e questo faceva salire vertiginosamente il prezzo della vaniglia (tuttora notevole). Il problema è che non si riusciva a coltivare fuori dalla zona d’origine: neanche in climi molto simili. Perché? Boh.

Il perché fu scoperto solo nell’800: il segreto della vaniglia sta nella sua impollinazione. I fiori non si trasformano in frutti se non vengono fecondati, e questo succede a tutte le piante, ma per fecondarli ci vuole solo ed esclusivamente un tipo di insetto, un’ape senza pungiglione del genere Melipona. Scoprire il problema non risolse il mistero, però. Perché non si capiva come fare a impollinare i fiori in maniera alternativa. E qui entrano in gioco i due protagonisti  di quella che sembra una favola: il re e lo schiavo.

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Il re di Francia, centro mondiale della cultura e del buon gusto, che prova a far introdurre la coltivazione della vaniglia a Bourbon, un’isola dell’oceano indiano che sembra adatta per il clima. La pianta infatti attecchisce, ma non dà frutti. Ci vuole la passione e la caparbietà di un giovanetto, Edmond. Nero, figlio di schiavi, e rimasto orfano a poche settimane, sembra avere tutte le disgrazie dalla sua. Ma a un certo punto la sorte gira, e il piccolo viene “donato” a un signore nobile e vedovo, che se lo cresce quasi come un figlio. Quasi eh, perché quando il bambino dice che da grande vuole fare il botanico come il “papà”, ovviamente nessuno lo prende sul serio: uno schiavo, studiare! Però può fare il giardiniere, ed è lì che scopre e mette a punto il metodo di impollinazione della vaniglia che viene usato ancora oggi. 

Come si impollina la vaniglia

Incredibile ma è così: ancora oggi la vaniglia viene impollinata a mano, e i fiori fecondati uno a uno. Il metodo inventato da Edmond può essere applicato solo in particolari condizioni: non deve esserci umidità, perché con la pioggia i fiori non si formano, e deve essere messo in atto la mattina presto, perché i fiori poi appassiscono in fretta. Con uno strumento appuntito ma non tagliente, un aculeo o un bastoncino, vengono eseguite all’interno del fiore delle delicatissime operazioni che permettono agli organi maschili e femminili di entrare in contatto.

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La scoperta avvenne nel 1841, e fu una vera rivoluzione sia per l’isola che per il mondo intero. Bourbon divenne il principale centro di produzione della vaniglia, ma le sue possibilità di piccola isola erano limitate, sicché dopo pochi anni si cercò di spostarla in altri luoghi. Terreno fertile venne trovato nella vicina, ma ben più grande, isola di Madagascar: ancora oggi, come sappiamo tutti, è la vaniglia del Madagascar la più pregiata e diffusa. E viene detta anche vaniglia bourbon, dal nome che aveva all’epoca l’isola che poi è diventata Réunion, l’isola dove avvenne il miracolo.

E il santo che il miracolo lo aveva fatto? Come si scopre leggendo il libro, e come i più pessimisti di voi avranno già indovinato, la sua vita non fu una cavalcata altrettanto trionfale. Cioè, in un primo momento sì: dopo l’incredulità iniziale, Edmond riceve tutte le attenzioni utili al caso: trattato “con riguardi inusitati nei confronti degli schiavi”, non si sposta più a piedi ma “gli mandano una carrozza o un cavallo”. Poi gli danno un cognome e infine, ma per la generale abolizione della schiavitù, la libertà. A questo punto, se le promesse della società occidentale fossero sincere, Edmond Albius sarebbe dovuto diventare ricco e famoso. Vi lasciamo immaginare, e scoprire leggendo il libro, come andò a finire invece.