Don Pasta, alias Daniele Di Michele, tecnicamente è un salentino che vive a Tolosa conciliando i mestieri di chef, dj, economista e scrittore. Ma per Dissapore mixa cucina e cultura. Anche raccontando una giornata in gattabuia.
Prison de Muret (Toulouse). Porto con me la caffettiera. E’ importante. Devo far capire che è come se fosse mattino presto. Un risveglio. Ne prenderò anche io. Ho gli occhi stanchi. Ma pieni. Un po’ matti si dovrà pur essere per entrare lì. Loro avranno avuto le loro pessime ragioni. Io porto con me il mattarello, che della follia ha accezione ironica.
Una, due, tre sbarre si aprono. Rumore stridente. Sono dentro e loro, prigionieri delle loro pene, mi verificano, più dei secondini. Controllano la cicatrice, solo quello. Hanno occhio clinico dietro il torpore di giorni e notti che non si contano, che sono cento, mille vite buttate nel cesso. Controllano che non sia li a domandarmi cosa mai avranno fatto. Non a compatire. Non a giudicare. Mi scuso. Il nome mio coglie in fallo, ma li rassicuro, Donpasta non è nome da prete.
Esile dirsi che sono venditore di passatempi insegnando a far pasta a chi ha tempo da vendere, se solo potessero. Ma lo incamerano, piuttosto, in camere striminzite. Spiano. Uno dietro l’altro, entrano e guardano furtivamente. Saranno forse stati ladri un tempo, ma il tempo è ora ladro delle loro vite. Gli resta giusto il tempo furtivo dello sguardo. Lo pagano a caro prezzo. Nascondono le loro cicatrici dietro infiniti tatuaggi. Una sola, rimane sguarnita. Nel fondo degli occhi. Mostro la mia. L’esser figlio di sud. Non la nascondo. Mostro anche che provo a curarla cantando serenate alla bellezza. E loro, della bellezza, non hanno paura, se solo potessero incontrarla.
Offro loro un po’ di pane con il mio olio e un buon caffè: “Non ne beva tanto, Rodriguez, che poi questa notte non dorme”.“E’ talmente buono. Non si preoccupi per me. Per recuperare, qui, ho tante di quelle notti davanti”. Sorridiamo, entrambe. Esiste un punto di rottura. Non so spiegarlo bene. Bisognerebbe vederlo, provarlo. L’ho visto con i bimbetti dei tanti mondi di piazza Vittorio, con i ragazzi di banlieue a Marsiglia. Non pensavo potesse accadere anche qui. A volte basta poco. Un buco nella farina. Le uova si rompono e scappano via.
Il primo si concede un istante senza ombre. L’altro ha lo stesso problema. Muovono rapidamente le mani per farne impasto e ridono, tutti, felici. Coscienti della realizzazione di qualcosa che si trasforma grazie alle loro mani. Farina e uova, in pasta. Ecco, racconto loro che la mia vita era groviglio che provo ogni giorno a trasformar in pasta da offrire. Ci salutiamo.
Una dietro l’altra le porte si chiudono dietro di me.
Anche alla sentinella ho lasciato un po di olio. “Aggiungete olio in quelle serrature. E’ così straziante il rumore di una porta che si chiude”.