La domanda sembra delle più banali: come si cuoce il riso? Ingrediente alla base della dieta di qualcosa come tre miliardi persone, circa la metà della popolazione mondiale, si può ben dire che sia il cereale più diffuso al mondo.
Da noi è servito come portata a sé stante, che sia risotto o risi e bisi, e in Spagna è protagonista di piatti unici strepitosi, a cominciare dalla paella in tutte le sue declinazioni.
Per la maggior parte degli altri “mangiariso” al mondo, è un accompagnamento, più o meno ricettato, a carni, pesci, verdure.
Naturalmente, ognuno lo fa a modo suo: le tecniche di cottura del riso variano a seconda delle tipologie e delle tradizioni gastronomiche. Le conosci tutte? Ecco qui il Bignami per un veloce ripasso.
1. A risotto
La tecnica la sai a memoria, ma a scanso di equivoci la riepilogo. Si svolge in tre fasi.
La prima è la tostatura dei chicchi che può avvenire in burro (oppure olio) ma anche a secco, se segui la tendenza in voga che vuole preparazioni più leggere e in purezza, in cui la componente grassa sia data solo dal brodo e/o dal condimento aggiunto in fase di mantecatura, esaltando il gusto naturale del riso (certo, a patto di usare un prodotto di altissima qualità).
La tostatura è necessaria perché alla fine i chicchi, pur se leggermente sfaldati, restino compatti senza incollarsi fra loro. E, naturalmente, deve essere fatta in un recipiente già ben caldo.
La seconda fase è l’aggiunta di liquido, che può o meno iniziare con il vino bianco della ricetta tradizionale per poi proseguire con brodo o semplice acqua, scelta da chi predilige la “purezza” di cui sopra.
Le dosi del liquido sono circa 3 volte il peso del riso, ma abbonda sempre un po’ perché la regolazione della fiamma potrebbe tradirti e lasciarti con il riso ancora crudo e il brodo finito.
Terza e ultima fase, la mantecatura, per tradizione con burro (freddo) e parmigiano. Secondo me, senza questo passaggio, che conferisce cremosità al piatto, il riso non si può chiamare risotto. Per questo non amo molto i risotti mantecati con l’olio, che risultano meno vellutati. Ma sono gusti.
La mantecatura si fa fuori dal fuoco. Se usi il burro, che sia freddo di frigo, come detto: solo così forma la famigerata cremina. Dopo l’aggiunta di grasso e formaggio, mescola, copri il tegame e lascia riposare almeno un paio di minuti. Infine rimescola, stempera se serve con poco altro brodo e servi.
2. All’inglese
Ora, al netto della “nuova (alta) cucina inglese” di cui si vocifera, degli chef di grido da Gordon Ramsay in giù, delle star televisive stile Nigella Lawson e Jamie Oliver, non si può dire che la gastronomia britannica brilli per originalità.
Roastbeef, pudding, pasticci, roba così. E lui, il famigerato riso all’inglese. Che, chissà perché, è assurto al ruolo di piatto della cucina internazionale ma non è nulla più che riso bollito, scolato e condito con il burro. Robina da malatini, insomma.
A volerlo nobilitare, si può comunque definire il perfetto side dish per stufati e umidi.
Riguardo alla tecnica, bada solo che l’acqua, salata e bollente, sia abbondante, circa 4-5 volte il peso del riso, per evitare che i chicchi si incollino sul fondo del tegame.
3. Pilaf
La tecnica è originaria di India e paesi limitrofi, molto diffusa (per ragioni coloniali) nella cucina inglese di cui sopra, ma anche in quella internazionale.
Ha due pregi: è facile da fare e non occorre controllarla.
Parti da una cipolla intera, steccata con chiodi di garofano e rigirata in una noce di burro caldo, per insaporirlo.
Versa il riso e, subito, il doppio del suo peso di acqua bollente (salata o meno secondo tuo gusto, in caso salata poco). Metti il coperchio e porta a cottura in forno (a circa 180°) o sul fornello con la fiamma molto bassa, senza più occupartene né rimescolare, finché i chicchi avranno assorbito tutta l’acqua.
Si può personalizzare sostituendo alla cipolla un trito di verdure odorose, aggiungendo una foglia di alloro o altre erbe e spezie (a me piace mettere una scaglia di cannella), usando olio invece di burro e brodo invece di acqua.
Si può anche rifinire in questo modo: una volta cotto il riso, allargalo su una placca in uno strato piuttosto basso e lascialo intiepidire. Poi, prima di servirlo, ripassalo in forno molto caldo (ventilato o addirittura grill) per renderlo ben asciutto e croccante in superficie.
Il pilaf è un contorno ideale per carni e pesci e, certo, più intrigante del riso all’inglese.
4. Saltato
Anche qui siamo in Oriente, in particolare dalle parti di Cina e Thailandia.
Il riso, in questo caso, è sottoposto a due cotture successive. La prima è una normale lessatura in acqua, che puoi anche non salare se i condimenti della ricetta finale saranno molto saporiti (salsa di soia, salsa di pesce e simili). Una volta scolato, stendi il riso su una placca o su un vassoio, meglio ancora su un telo, perché si asciughi e si raffreddi molto bene.
Così, al momento di gettarlo nel wok con l’olio rovente, i chicchi diventeranno croccanti e sgranati, invece di ammassarsi in un pappone colloso.
Se puoi, preparalo con largo anticipo e conservalo in frigo: ben freddo, a contatto con il condimento caldo l’effetto fritto sarà ancora più accentuato. Se, infine, hai l’abbattitore, hai fatto bingo – e risparmiato qualche ora di riposo!
Nel wok, rigiralo continuamente con una spatola: la fiamma deve essere alta e se non smuovi i chicchi rischi di farli bruciare o attaccare.
Naturalmente, nel recipiente di cottura non ci sarà solo olio ma anche verdure, gamberetti, bocconcini di carne, frutta secca, spezie eccetera, tutto già ben rosolato, secondo ricetta.
5. Al vapore
La cottura cosiddetta al vapore è una tecnica, orientale anch’essa, che prevede che il riso sia parzialmente cotto in acqua in un tegame coperto, poi lasciato riposare nel recipiente ben chiuso, in modo da non far scappare il vapore: i chicchi assorbiranno l’acqua e si gonfieranno, il calore intrappolato nella pentola li manterrà morbidi e caldi fino al momento del consumo, il vapore (appunto) si insuerà tra loro mantenendoli “ariosi”.
Il sistema è questo. Versa il riso in un colino, mettilo in una ciotola, ponila sotto un filo di acqua corrente e fai scorrere l’acqua finché quella nella ciotola rimane limpida.
Sgocciolalo, mettilo in casseruola e copri di acqua fredda che lo sopravanzi di circa un dito.
Metti il coperchio, porta sul fuoco, attendi il bollore (uscirà un filo di vapore da sotto il coperchio, che non devi mai sollevare), abbassa al minimo e cuoci 10 minuti. Poi spegni e fai riposare altri 10 minuti o finché l’acqua sarà stata tutta “bevuta” dal riso, pronto a essere scodellato per accompagnare le pietanze orientali.
Se il tuo coperchio non è pesante o non chiude bene, a fuoco spento frapponi un panno ripiegato tra l’orlo della casseruola e, appunto, il coperchio stesso. Ma agisci con grande rapidità, per non disperdere il prezioso vapore.
Meglio usare un tegame a fondo spesso o persino antiaderente. Altrimenti, lascia su fondo e pareti la parte che rimarrà inevitabilmente attaccata (un po’ come succede alla polenta nel paiolo).
6. Con la cuociriso elettrica
È l’elettrodomestico irrinunciabile per milioni di orientali, usato nelle case come nei banchetti di street food (piccolo aneddoto personale: io l’ho vista in funzione anche in un chiosco sulla Muraglia cinese!) e ormai comune anche da noi.
Puoi comprare facilmente la cuociriso negli store asiatici che vendono casalinghi, si trova nelle grandi catene di elettronica, online e, nelle versioni più basic (assolutamente adatte allo scopo), costa poche decine di euro.
Il principio è lo stesso della cottura a vapore, quindi il riso prima della cottura va lavato.
La cuociriso è dotata di un misurino per dosare i chicchi e l’acqua che comunque, come nella tecnica in pentola, deve sopravanzare il riso di circa un dito.
Poi, basta mettere il coperchio e accendere l’apparecchio, che va da solo e, meraviglia delle meraviglie, a termine cottura scatta autonomamente in modalità “warm” e tiene in caldo il riso fino al momento di servirlo.
In genere, la pentola interna è antiaderente: questo non eviterà al riso di attaccarsi al fondo, ma faciliterà la successiva pulizia.
7. Nella paellera
Sì, lo so: la padella in cui si cuoce la paella si chiama “paella”. Il termine “paellera” è una italianizzazione. Ma la chiamerò così per essere chiari.
Come accade con il nostrano risotto, la celebre ricetta spagnola è, prima di tutto, una tecnica di cottura. Che, una volta imparata, si può applicare anche alle versioni più ardite e creative, compresa quella vegetariana.
Quindi, parti rosolando nella paellera tutti gli ingredienti che andranno ad arricchire la paella, siano la carne e gli ortaggi della ricetta valenciana, i frutti di mare di quella “de marisco” o un mix dei due in quella forse meno ortodossa, ma più gustosa. Oltre a unire, naturalmente, condimenti e spezie.
Io preferisco portare a cottura ogni ingrediente separatamente dagli altri, per rispettare i tempi di cottura di ciascun elemento, ma altre ricette mettono tutto insieme, naturalmente in successione.
Preparata come sia la base, è il momento del riso. Io faccio (e ti suggerisco di fare) così: verso il riso e do una mescolata giusto per distribuirlo bene nella pentola, poi lo copro inizialmente con il doppio del suo peso in brodo bollente (come per il pilaf). Do un’ultima rimescolata e cuocio a fuoco medio, lasciando sobbollire il tutto, per circa un quarto d’ora, senza più toccare nulla.
Quando vedo che il riso si asciuga troppo, abbasso la fiamma e/o aggiungo altro brodo, sempre caldo, che vado a versare lungo i bordi della paellera o nei punti in cui il riso affiora troppo: è importante che i chicchi siano sempre coperti da un filo di liquido.
Trascorso il primo quarto d’ora, la mia tecnica prevede che la paellera finisca in forno ben caldo, 220°, qualcosa in meno se accendo la funzione ventilata. Ci rimarrà altri 10-15 minuti, finché il brodo è assorbito, il riso è cotto e la superficie croccantina.
Croccantino sarà diventato anche il fondo, mentre la parte centrale resterà morbida e cremosa: le due consistenze si mescoleranno nei piatti, al momento di servire la paella a grosse cucchiaiate.
¡Buen provecho!