L’Asia è un continente di paste ripiene. Qui l’arte dell’involucro, della marinatura e combinazione degli ingredienti è più che millenaria. Così i ravioli asiatici rappresentano, ben più delle bandiere, storia e folklore dei rispettivi paesi. Saperli riconoscere è il minimo per orientarsi in queste culture variegate, più e meno lontane.
È anche il modo per farsi una bella scorpacciata: al vapore, bolliti, fritti, brodosi, croccanti, dolci, soffici, cremosi. Dire che ce n’è per tutti i gusti è di una banalità inaudita, eppure è la grande verità che da secoli contraddistingue questi irresistibili bocconcini. Dalle coste orientali di Giappone e Corea fino alle porte di casa nostra, vedi Russia e Georgia, abbiamo raccolto i 10 tipi di dumplings imprescindibili da conoscere e provare.
Un po’ Via della Seta, un po’ Orient Express, unitevi a noi in questa carovana mangereccia. E se vi state chiedendo dove sono finiti i ravioli cinesi, fra i più antichi e variegati di tutta l’Asia, ci abbiamo dedicato un capitolo a parte da leggere proprio qui. Ecco quali sono i 10 tipi di ravioli asiatici da conoscere: gyoza, momo, mandu, pelmeni, khinkali, chuchvara, modak, siomay, ba wan, buuz.
Gyoza
È facile intravedere il legame diretto tra jiaozi cinesi e gyoza giapponesi. C’è quello linguistico, evidentemente. Quello storico, conseguente all’occupazione giapponese in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale. E quello apparente, perché i gyoza sono terribilmente simili ai jiaozi. C’è la forma a mezzaluna, la pasta di frumento (con aggiunta opzionale di uova), il ripieno ricco e aromatico di carne e/o verdure.
A guardar bene però, spicca anche qualche differenza. I gyoza si distinguono per l’abbondanza di aglio, lo spessore della pasta che in Giappone tende a essere più sottile, e l’accompagnamento di salse da inzuppo. La più comune è il rayu, mix di salsa di soia, aceto di riso e olio piccante. Ecco, a seconda del metodo di cottura, come si chiamano le diverse tipologie di gyoza:
- Suy-gyoza: ravioli bolliti.
- Age-gyoza: deep-fried ripieni di maiale, kimchi, funghi o gamberetti.
- Yaki-gyoza: alla piastra realizzati con tecnica mista di stir-fry in padella e cottura al vapore.
- Hamamatsu gyoza: tipici di Hamamatsu nel sud del Giappone, vengono fritti con metodo hanetsuke, disposti in circolo su un’unica superficie croccante che tiene insieme tutti i ravioli.
Momo
Un consiglio: non cercate “momo” su Google images. L’inquietante mostriciattolo dai meandri di Reddit che vi si parerà davanti non ha niente a che fare con questi deliziosi ravioli al vapore nepalesi. I momo, letteralmente “panini al vapore”, sono simili ai baozi cinesi. Ma attenzione a non confonderli, che qui l’argomento Cina è piuttosto scottante.
L’origine dei momo è infatti il Tibet, regione che da tempo chiede l’indipendenza dalla Terra di Mezzo. Attraverso le vie mercantili sono arrivati a Kathmandu, la capitale nepalese, e qui rapidamente adottati come snack nazionale. Sempre a proposito di confini, non manca l’influenza indiana nell’uso di salse e chutney a base di sesamo e pomodoro che spesso li accompagnano.
I momo a base di acqua e farina hanno forma circolare, in qualche caso a mezzaluna. Il ripieno tradizionale prevede carne e aromi di marinatura come cumino, cipolla, zenzero, aglio. Soprattutto in Nepal si sono diffuse varianti vegetariane con verza, patate e formaggio. Ecco alcuni tipi di momo a seconda del ripieno e della salsa di accompagnamento:
- Sha momo: ripieni di manzo o yak.
- Khasi momo: ripieni di agnello o montone.
- Jhol momo: in zuppa calda di pomodoro dalla consistenza liquida.
- Achar momo: in salsa di pomodoro tipici di Kathmandu.
- Tarkari momo: ripieni di verdure.
- C-momo: al vapore o fritti serviti con salsa piccante.
Mandu
I mandu sono i ravioli tipici coreani. Spesso al vapore, possono essere anche bolliti, alla piastra o fritti. La radice di mandu è la stessa dei mantou cinesi, panini al vapore tipici delle zone settentrionali. Fanno parte di una famiglia allargata che comprende manti turchi, mantu afghani e mant i armeni fra gli altri: guarda caso, un fil rouge che ricalca l’antica Via della Seta.
Questa autostrada internazionale dei dumplings trova la sua estremità più orientale proprio in Corea. Qui i mandu, un tempo appannaggio della cucina di corte, sono uno degli snack più popolari. Caratterizzati da un wrap di acqua e farina, sono farciti con le combinazioni più disparate di carne, pesce e verdure. Tra i ripieni tipici spicca il kimchi, cavolo fermentato ubiquitario nell’alimentazione coreana. Ecco, secondo il tipo di cottura, alcuni tipi di mandu:
- Mul-mandu: ravioli bolliti.
- Gun-mandu: ravioli alla piastra.
- Jjin-mandu: ravioli al vapore.
Pelmeni
I pelmeni sono i tortelli russi di pasta fresca. Non si sa con certezza se la loro prima apparizione sia da attribuire alle popolazioni degli Urali o della Siberia. Nel dubbio i russi li mettono al centro, della tavola e della cucina nazionale. Non mancano anche qui parenti prossimi per questioni storiche e geografiche. Due esempi (ironici, di questi tempi) sono proprio i varenyky ucraini e gli uszka polacchi, simili per forma e fattura.
A prima vista i pelmeni non sono materiale da #foodporn. La pasta semplice a base di acqua e farina (a volte anche uova) nasconde un ripieno di carne e funghi pressoché sempre identico. Anche i condimenti sono piuttosto spartani: solo pepe e aneto, con possibilità di aggiungere cipolle rosse, sour cream o aceto. Ricordiamo però che la Russia da sola fa un continente. E così a cambiare sono i modi di servire i pelmeni: asciutti, in brodo, al sugo, al burro fuso, fino alla salsa di soia nelle zone più a est.
Khinkali
Ok, la Georgia avrà pure un posto all’Eurovision ma stavolta la cartina geografica dà ragione a noi. E dunque il prossimo dumpling asiatico è il khinkali, fra gli immancabili della cucina georgiana. Questo morbido e succulento raviolo di pasta annodata si distingue per le grosse (e sazianti) dimensioni. Il ripieno, tradizionalmente a base di maiale e manzo, si rifà per certi versi ai brodosi tangbao della cucina cinese: nessun ingrediente infatti viene precotto, così da mantenere tutti i succhi all’interno del raviolo.
Alcune varianti regionali sono il ripieno di agnello, a nord della Georgia; il formaggio fresco dell’Imereti; e le opzioni vegetariane di patate e funghi del Kakheti. Altri aromi nell’impasto possono includere coriandolo, cumino, prezzemolo, cipolla. Il pepe nero invece è usato come unico condimento, laddove presente. Altrimenti i khinkali vanno benissimo tal quali, da mangiare caldi appena scolati dall’acqua bollente. Per afferrarli c’è il vistoso nodo che li contraddistingue, la cui funzione dovrebbe essere puramente prensile. Poi, esattamente come accade per il cornicione della pizza, a voi la scelta di scartarlo o meno (noi optiamo per la seconda).
Chuchvara
Anche i chuchvara o tortellini uzbeki fanno parte di una famiglia allargata estesa in tutta l’Asia centrale. L’etimologia risale al persiano joshpara, letteralmente “piccolo pezzo bollito”. E proprio di questo si tratta: pasta fresca di modeste dimensioni ripiena di carne e verdure e bollita in brodo vegetale. Se ne trovano varianti in Turchia, Iran, Azerbaijan, Siria e Libano. A proposito di cucina libanese, ne sono un esempio sono gli shishbarak serviti con lo yogurt (notate l’assonanza?).
I chuchvara uzbeki sono una delle varietà più conosciute. Questi piccoli tortelli di uova e farina sono tradizionalmente riempiti con agnello o manzo fritti, cipolle, pepe nero e timo. Dopodiché si tuffano in un saporito brodo vegetale con pomodoro, carote e cipolle che tuttavia può essere scolato. I chuchvara infatti sono apprezzati asciutti, fritti (kovurma chuchvara) o serviti con erbe aromatiche, cipolle e uova sode (osh kuktli chuchvara). Altre opzioni sono salse a base di aceto, pomodoro o peperoncino; yogurt syzuma, simile al greco; o alla russa con sour cream.
Modak
Il subcontinente indiano, lo sapete, è un impressionante connubio di civiltà, lingue, culture e religioni. A beneficiarne è proprio la gastronomia con una quantità spropositata di cucine e piatti tipici. L’unica sezione decisamente mancante sembra essere proprio la pasta ripiena (escludendo i samosa che si rifanno più ai rustici che ai classici ravioli). Fra i pochissimi esempi ecco i modak, ravioli dolci indiani.
La domanda da porsi in questo caso specifico è: quale India? I modak sono originari del Maharashtra, stato occidentale noto per la cucina prevalentemente latto-vegetariana. Da lì si sono diffusi nel resto del continente dove, a seconda della lingua, sono conosciuti anche come kozhukattai (tamil), modhaka (kannada), kudumu (telugu). Tradizionalmente il loro consumo è associato alla divinità elefantiaca Ganesha, di cui si dice sia il dessert prediletto.
Anche la loro preparazione risente dell’area geografica. I modak possono essere a base di farina di riso, semolino o frumento. Il ripieno prevede zucchero con cocco grattugiato, banana, spezie come zafferano e noce moscata. Ecco, a seconda degli ingredienti e dei metodi di cottura, quali sono le principali varianti:
- Ukadiche: modak al vapore a base di farina di riso, cocco e zucchero serviti con ghee sciolto. Sono i più diffusi e protagonisti assoluti del festival hindu dedicato a Ganesha.
- Modak fritti: serviti senza topping e particolarmente apprezzati come street food.
- Mawa: “finti” modak a base di latte aromatizzati con pistacchio, cardamomo, mandorla, cioccolato.
Siomay
Unici nel loro genere, gli siomay sono ravioli di pesce indonesiani. L’assonanza con gli shumai cantonesi è indubbia, tanto che l’origine è la stessa. I primi a diffonderli infatti furono gli immigrati cinesi, che iniziarono a popolare l’arcipelago durante la dominazione olandese dell’Ottocento. La similitudine però qui si limita al nome: gli siomay infatti, rispetto ai ravioli aperti cinesi, sono tutta un’altra cosa.
Si tratta di grossi ravioli conici al vapore ripieni di pesce e serviti con una dose generosa di salsa alle arachidi. La specie più comunemente usata è il tenggiri o sgombro spagnolo, ma c’è posto anche per tonno e gamberetti. Altri ingredienti imprescindibili sono uova, patate, verza, tofu e bitter melon, una specie di zucca amara tipica del sud est asiatico. Infine la salsa, ricca e cremosa a base di noccioline, soia, peperoncino e succo di lime.
Ba wan
Il ba wan della cucina taiwanese viene definito da molti la “polpetta di cristallo”: l’involucro infatti è a base di tapioca e amido di patata dolce. L’aggiunta di olio e salsa agrodolce esaltano ulteriormente l’effetto translucido. Del resto cos’altro aspettarsi dal paese che ha reso popolare il bubble tea con le sue perle gelatinose che scoppiano allegramente in bocca?
La similitudine con il bubble tea non si limita solo alla consistenza. Anche il ba wan nasce in modo incidentale, almeno secondo la leggenda. Dopo la grande alluvione del 1898 a Changhua, lo scriba del tempio locale si adoperò per sfamare il più in fretta possibile gli sfollati. Lo fece utilizzando esclusivamente ingredienti locali che oggi definiremmo a chilometro zero: patata dolce per la pasta, germogli di bambù per il ripieno.
L’operazione fu un successo, così come lo snack salva vita. Con il tempo (e la fine dell’emergenza) gli ingredienti si fecero più vari e nutrienti. Il ba wan moderno prevede carne di maiale, funghi shiitake e bambù. E poi ci sono le dimensioni, dai 6 agli 8 centimetri di diametro. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, e meno male che qualcuno ci ha pensato.
Buuz
Terminiamo il nostro viaggio nel cuore dell’Asia con i buuz, panini al vapore della Mongolia. Questi dumplings morbidissimi e nutrienti sono protagonisti del Tsagaan Sar, capodanno lunare mongolo che cade a febbraio. Nel cenone asiatico le guest star sono rappresentate da due bevande tipiche di accompagnamento: vodka (per i più festaioli) e suutei sai, il “tè salato mongolo” con acqua, latte, sale e foglie di tè verde.
In effetti bere aiuta per mandare giù questi corposi panini di frumento ripieni di carne. Tipicamente all’interno troviamo agnello o montone, insieme a cipolle, aglio e semi di finocchio. Altre aggiunte possono essere patate, cavolo e riso. Il ripieno non viene del tutto sigillato, come dimostra la piccola apertura sulla superficie. In questo modo tutti gli ingredienti sono cotti uniformemente, in particolare la carne che rilascia i suoi succhi all’interno del raviolo.