Tra le domande trabocchetto dei quiz televisivi, come nei talent di cucina, ce n’è una che spunta con frequenza: qual è la differenza tra baccalà e stoccafisso? Ma anche, banalmente: cosa sono? E ancora: da quale pesce si ottengono?
Se le risposte sono, per i fedeli lettori di Dissapore, abbastanza scontate, la storia di questi prodotti è affascinante e vale la pena di approfondirla.
A scanso di equivoci, eccoti comunque la soluzione ai quesiti: stoccafisso e baccalà sono entrambi prodotti della lavorazione del merluzzo atlantico, in particolare della specie Gadus morhua; lo stoccafisso è essiccato, il baccalà conservato sotto sale.
Bonus track: in Veneto, chiamano baccalà lo stoccafisso. Sembra, per una mera questione fonetica: bacalà (con una sola c) sarebbe più facile da pronunciare per chi parla l’idioma locale.
L’eccezione veneta dà, da sempre, adito alla confusione tra i termini. Ma ti sia chiaro che il celebre baccalà alla vicentina – che, no, non è il baccalà mantecato alla veneziana – si fa con lo stoccafisso. Tuttavia, anche il baccalà mantecato alla veneziana si fa con lo stoccafisso.
Mentre la pappetta impropriamente definita mantecata, impastata con panna o maionese, è in genere fatta con il baccalà baccalà, ovvero quello salato, e aggiunte discutibili (mayo e panna, appunto).
Ti gira la testa? Cerchiamo di fare un po’ di ordine. Partendo dalla materia prima.
Il merluzzo
Ingiustamente relegato al ruolo di bastoncino surgelato o trancetto da mensa scolastica, in realtà nelle sue espressioni migliori il merluzzo è pesce di grande nobiltà, con carni sode, bianche e compatte.
Il miglior merluzzo al mondo è senza dubbio lo skrei, che percorre ogni anni un migliaio di chilometri dal mare artico di Barents fino alle coste settentrionali della Norvegia.
In questo suo lungo viaggio il “pesce vagabondo” (che questo significa “skrei”) passa davanti alle isole Lofoten, situate oltre il circolo polare, che sulla pesca al merluzzo e sulla sua conservazione basano da secoli la loro economia e la loro alimentazione.
Negli ultimi anni questa varietà di pesce spopola tra gli chef di grido per le caratteristiche eccelse della sua polpa. E da sempre è utilizzata per la preparazione dello stoccafisso.
Lo stoccafisso
E arriviamo a lui, il pesce-stocco. Da tempi immemorabili, i popoli affacciati sulle coste nord-atlantiche pescavano i merluzzi artici che passavano di lì tra gennaio e aprile.
Per prolungare la shelf life di questo prodotto così prezioso, e per poterlo caricare sulle navi, i vichinghi (che di loro stiamo parlando) impararono presto a essiccarlo all’aria aperta approfittando delle particolari condizioni climatiche di quella parte di Norvegia, lambita dalla “tiepida” corrente del Golfo che, durante l’inverno, mantiene le temperature intorno agli 0°.
Ancora oggi, la lavorazione è ridotta al minimo. Appena pescati, i merluzzi sono decapitati ed eviscerati. Poi sono accoppiati, legati per le code, appesi a rastrelliere di legno ed esposti agli agenti atmosferici: vento, sole e piogge, in perfetta alternanza.
Il baccalà
Se il processo per ottenere lo stoccafisso è legato a un momento preciso dell’anno, che va da febbraio-marzo fino a maggio, e a una determinata area geografico-climatica, quella appunto delle isole Lofoten, la conservazione mediante salagione è slegata dalla stagione e molto più diffusa.
Islanda, Isole Fær Øer, Danimarca, Groenlandia, Canada sono tutti, insieme alla Norvegia, paesi produttori di baccalà ricavato da merluzzo nordico, non necessariamente artico.
Pulito e parzialmente diliscato, il merluzzo subisce diverse salature successive durante le quali la polpa si disidrata: quando il contenuto di acqua scende sotto al 48%, il baccalà è pronto per la commercializzazione.
La diffusione nel mondo
Il viaggio dello stoccafisso dalla Norvegia all’Italia è legato a quello di un mercante veneziano, Pietro Querini, che nel 1432 naufragò su un isolotto al largo di Røst, la più piccola ed esterna delle isole che compongono l’arcipelago delle Lofoten.
Durante la sua permanenza ebbe modo di conoscere e apprezzare lo stoccafisso, riportandolo a Venezia e dando vita a un business fiorente, che affiancò a quello della Malvasia, prodotto di punta dei suoi traffici.
Una curiosità: ancora oggi il pub-ristorante di Røst (che conta circa 500 abitanti) si chiama Querini e il comune è gemellato con Sandrigo, cittadina vicentina che ospita il Festival del Bacalà.
Nei secoli successivi, analoga fortuna ebbe, in Europa e nel mondo, anche la versione salata.
Un successo, quello di stoccafisso e baccalà, dovuto anche al Concilio di Trento che, nel 1563, sancì tra l’altro la disciplina della dieta “di magro” durante le feste comandate, la Quaresima, il venerdì e finanche il mercoledì. Facendo diventare questi prodotti “poveri” perfetti per le tavole dei più osservanti.
Non è dunque un caso che, oltre al nostro Paese, siano stati i tanti popoli cattolici ad adottare queste due specialità: da Spagna e Portogallo fino a Brasile e Messico.
Ma la grande disponibilità e versatilità, in secoli in cui la conservazione dei cibi era sempre un problema, le fecero apprezzare anche dalle comunità ebraiche di tutto il mondo, in particolare quella capitolina.
Come si comprano
Stoccafisso e baccalà si trovano facilmente “al naturale”, ovvero semplicemente seccati o sotto sale, entrambi da trattare prima della cottura, come ti spiego tra poco.
All’acquisto, lo stoccafisso è in genere intero, più raramente a pezzi. La varietà più pregiata è quella denominata “ragno”, da merluzzo artico, essiccata per 3 mesi.
Il baccalà è più spesso venduto a tranci. Per secondi e fritti, sono meglio quelli ricavati dalla parte centrale, più spessa. La parte della pancia e quella della coda, che va ad assottigliarsi, sono adatte per sughi e intingoli vari.
Siccome viviamo in un mondo di pigri, e la preparazione alla cottura è lunga e laboriosa – come sto per spiegarti – si possono comprare già lavorati, semplicemente ammollati, oppure ammollati e congelati, mentre lo stoccafisso si trova addirittura precotto, solo da rifinire in pentola.
Come si trattano
“I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabile mercanzia per quel mare d’Alemagna”. Questo scriveva Querini in una relazione per il Senato della Serenissima.
E questo si fa ancora oggi: lo stoccafisso secco va infatti battuto con un pesante pestello, per sfibrare le carni, eventualmente pulito da residui di interiora, poi messo a bagno in abbondante acqua fresca, da cambiare dopo le prime 2 ore, poi ogni 8 ore, per 36-48 ore.
Il baccalà va invece spazzolato per togliere il sale in eccesso, poi lavato sotto un filo di acqua corrente, infine lasciato a bagno come lo stocco per 24-48 ore tenendo presente che più i pezzi (tranci e filetti) sono piccoli, più rapido sarà il processo: 2 giorni di ammollo sono necessari solo per il pesce intero.
Prima della cottura, conviene eliminare le grosse lische residue con una pinzetta. La pelle si può conservare se si cuociono i pezzi interi che, così, non si sfalderanno, e anzi è consigliata per preparazioni come il baccalà alla vicentina, perché contiene collagene che aiuta a rendere amalgamata la preparazione.
Io preferisco toglierla solo quando friggo il pesce in pastella, una delle preparazioni più golose e diffuse. Tante altre sono le ricette adatte a questi due prodotti… ma questo è un altro post!