Per i supponenti newyorkesi, noi italiani siamo una banda di zotici usurpatori che manco sanno come si mangia correttamente il loro piatto nazionale: la pizza (come riportato da Federico Rampini su Repubblica).
Brandendo coltello e forchetta come delle clave, inquiniamo il rituale della degustazione della “vera pizza” –piatto notoriamente nato, cresciuto e pasciuto in quel di New York– e che sarebbe, a loro dire, religiosamente costituito dall’afferrare con le mani l’ampia fetta grondante ananans, cozze e ketkchup tuttinisieme per farla poi atterrare nelle fauci spalancate.
Solo un parvenu come quell’italo-americano di De Blasio, attuale sindaco di New York, poteva aver l’ardire di mostrarsi in pubblico mangiando una pizza con regolari posate, e arrogandosi il diritto di dire che “in Italia la pizza si mangia così, con coltello e forchetta”.
Che c’entra l’Italia con la pizza, che ce ne frega, a noi abitanti della Grande Mela, di come la mangiano in Croazia, in Bosnia, in Tanzania o, appunto, in Italia?
Ecco, per quanto quello sopra riportato possa sembrarci un racconto surreale, è invece la triste verità. L’Italia è stata pian piano defraudata del suo piatto di maggiore risonanza mondiale, la pizza, per noi così ovviamente italiana così come per loro, i newyorkesi, così tipicamente americana.
Ma siamo così sicuri che “loro” siano così nel torto?
Davvero vogliamo rivendicare come italiana una preparazione che con il nostro caldo comfort food per eccellenza condivide solamente un base di pasta, sia essa circolare o rettangolare? Basta dare un’occhiata ai diversi stili di pizza assemblati in questa immagine del Wall Street Journal.
Come recentemente affermato da Paolo Di Croce, segretario generale di Slow Food International, è la “contaminazione”, l’influenza di altre culture e altri ingredienti che amplia e connota una cucina “tradizionale”; né il grano che serve per l’impasto, né il pomodoro, necessario a condire la pizza così come la intendiamo noi, sono prodotti autoctoni, originari della nostra penisola.
Eppure, combinandoli assieme, hanno dato luogo a uno dei nostri piatti forti nazionali. Proprio come è successo alla Baklava, il ricco dolce di origine turca che passando per i lidi austriaci venne arricchito e trasformato in un dolce dotato di propria dignità prendendo il nome di strudel, senza che né turchi né austriaci se ne siano mai lamentati.
La stessa cosa che sta succedendo ora a New York e in tutti gli USA.
Lontana è infatti la pizza “Neapolitan Style”, lanciata dall’immigrato Gennaro Lombardi nel 1905 a Spring Street, nel cuore di Little Italy, così come indicato nella più dettagliata guida delle pizze etniche di New York, dal titolo “A Complete Guide to New York City Pizza Styles”, un post pubblicato nel 2014 dal sito americano Eater, sezione New York.
Ben presto, quella pizza che ancora poteva dirsi ancora italiana, è stata presa, stravolta, inglobata dalla cultura ospitante, che ne ha fatto un piatto nuovo, diverso, autonomo rispetto all’originale.
Ed è quindi inutile ripetere che le pizze targate US sono “troppo”, troppo ricche, troppo condite, con un’accozzaglia di ingredienti buttati sopra a casaccio: quelle pizze sono semplicemente un’altra cosa, con loro dignità (anche se fatichiamo a immaginare quale) e loro specifiche caratteristiche.
Sarebbe come voler paragonare la paella al risotto alla parmigiana: le accomuna il riso, certo, ma non altro. Così come è inutile criticare la pizza di Chicago, detta pie, così ricca e spessa da esser definita dall’umorista televisivo Jon Stewart “una mangiatoia per ratti”.
O storcere il naso davanti alla pizza Cajun, ricca di influenze della cucina afroamericana e caraibica e diffusa negli Stati del Sud come la Louisiana, e dal 1987 presente a New York con la catena Two Boots (due stivali), in cui l’Italia è ancora ricordata come uno dei due stivali, l’altro è appunto la Louisiana.
Anche la California Pizza ha ben poco della classica pizza pomodoro e mozzarella, mentre è ricca di ingredienti stagionali e dell’agricoltura biologica, in onore alle attuali tendenze gastronomiche.
Certo, questo fiorire di pizze “alternative” non significa che anche a New York non si possa gustare una pizza tradizionalmente italiana, lo snobbissimo Rampini di Repubblica che abita nell’Upper West (beato lui) segnala Fiorello al Lincoln Center, dove si può gustare un’ottima pizza romana, oppure la Masseria dei Vini a Hell’s Kitchen, per una classica pizza napoletana o pugliese.
Ma sono pizze italiane, tipicamente italiane.
Ormai, in quest’epoca di globalizzazione, di viaggi, di interconnessione e contaminazioni, non possiamo più pretendere di connotare col termine “pizza” solo la tradizionale margherita o la quattro stagioni (anche questa, se andiamo a vedere, molto poco tradizionale e molto più “americana” della classica napoletana).
“Pizza” è ormai un patrimonio comune, diffuso, da interpretare come più aggrada in base ai propri gusti, alle proprie latitudini e alle proprie tradizioni.
Se proprio vogliamo indicare la classica pizza nostrana, da noi tanto amata, non avremo che da aggiungere un piccolo aggettivo: italiana. E saremo sicuri che non ci arriverà (si spera) un disco di pasta ricoperto di ananas e cozze.
[Crediti | Link: Repubblica, Wall Street Journal]