Chi pensa a Venezia semplicemente come città di bacari, in cui la tradizione si riassume in una pur ampia scelta di cicchetti, in realtà conosce solo un volto della gastronomia lagunare. La cucina veneziana, infatti, dimostra di saper andare oltre l’assaggio a misura di boccone, perfetto compagno dello spritz o dell’ombra di vino e permette di scoprire un tripudio di piatti tipici che vedono un susseguirsi di paste, risotti, fritti, arrosti e dolci. Per consentirvi di programmare al meglio la vostra gita in laguna, abbiamo pensato di darvi qualche consiglio per non arrivare impreparati: una sorta di vademecum per il quale ci siamo premurati di inserire anche i nomi dei piatti in dialetto, per non farvi sfigurare al momento dell’ordinazione, oltre ad alcune notazioni storiche e qualche curiosità.
Ecco la lista dei piatti tipici veneziani imprescindibili, i migliori da provare per farsi una cultura gastronomica sulla città.
Baccalà mantecato
Anche se si è abituati a vederlo protagonista di cicchetti memorabili, il baccalà mantecato gode di vita propria oltre la dimensione del bacaro e può diventare orgogliosamente piatto a sé. Il termine mantecato deriva dallo spagnolo manteca, burro. La mantecatura implica infatti una lavorazione che gli conferisce un aspetto morbido e cremoso. La ricetta, codificata dalla Confraternita del Baccalà Mantecato, nata nel 2001, è semplicissima sulla carta ma difficile nella resa: la trasformazione in crema deve avvenire rigorosamente senza l’aggiunta di panna o burro, utilizzando quindi solo olio extra vergine d’oliva, versato a filo sulla polpa sbattuta/montata a mano con un cucchiaio di legno o con una planetaria (mai il frullatore!). Il composto viene montato come se fosse una maionese, fino ad ottenere una crema compatta ed omogenea. Da accompagnare alla polenta calda, ovviamente.
Bigoli in salsa
La tradizione dice che sono un piatto da consumare nei giorni di magro, prescrizione che in realtà è stata pressoché dimenticata, non tanto per il venir meno del sentimento religioso quanto per la potenza del sentimento gastronomico che, data la loro bontà, li vede presenti a prescindere dal calendario annuale. La traduzione volgare dei bigoli in salsa equivale a “pasta con le sarde”, equivalenza che non riesce tuttavia a restituire l’identità del piatto.
Partiamo dalle basi: i bigoli. Alcuni fanno risalire il nome al 1604, anno in cui Bartolomio Veronese, pastaio padovano, inventa il torchio bigolaro, una macchina in grado di produrre vari tipi di pasta lunga, tra cui degli spaghettoni grezzi, i bigoli appunto. L’impasto, lavorato al torchio, veniva passato attraverso una trafila con dei fori di 2-2,5 millimetri. Secondo un’altra versione il termine deriverebbe dal tipico bastone curvo che si usava per trasportare acqua o farina, quindi molto usato dai garzoni dei mastri pastai. Piena convergenza in ogni caso sulle caratteristiche: porosi, ruvidi e con una consistenza grossa che trattiene i sughi, si preparano con farina di grano tenero (ma anche integrale: si chiamano bigoli mori ed i puristi della ricetta usano questi), con o senza uova. La “salsa” della ricetta è poverissima: cipolle (bianche di Chioggia, le stesse delle sarde in saor) e sarde sotto sale. La chiave sta tutta nel saper stufare la cipolla affinché appassisca e diventi dolce. I veneziani in questo sono maestri e sanno rendere seducente qualsiasi piatto con la cipolla: non a caso in questo elenco di piatti tipici trovate anche il fegato alla veneziana. Le sarde arrivano poi a dare una sferzata di sapore con le note saline e marine. Inutile dire che i bigoli vanno cotti al dente e che il guizzo nervoso che trascina con sé il sugo è parte del gioco.
Risi e Bisi
Ne avevamo già parlato quanto avevamo elencato i migliori risotti veneti e ora ci ritorniamo perché è una ricetta storica: i risi e bisi erano infatti il piatto dei Dogi, consumato il 25 aprile in onore della festività di San Marco, patrono di Venezia. Il riso era rigorosamente quello del veronese mentre i piselli erano quelli di Lumignano, in provincia di Vicenza. Se le preferenza accordata al riso veronese è ancora valida, segnatevi anche i piselli di Colognola ai Colli (VR) e quelli di Baone nel padovano. La ricetta, anche in questo caso codificata (il brevetto è stato depositato nel 2013 dal comune di Scorzè alla Camera di Commercio di Venezia) è insidiosa nella resa finale. Tra il risotto all’onda e la minestra, i risi e bisi sono un equilibrio cremoso di consistenze che richiede diverse prove prima di essere raggiunto. Per aiutarvi, ai piselli potete aggiungere i baccelli, dopo averli frullati nel mixer, cotti nel brodo e passati in un setaccio per togliere le parti più fibrose.
Risotto di go
Un grande classico. Difficilissimo da preparare, rende omaggio al ghiozzo, un pesce tipico della laguna decisamente brutto e spinoso. Praticamente un reietto, che ritrova dignità in un capolavoro di delicatezza inenarrabile. La lavorazione richiede pazienza e maestria: con le carni del ghiozzo si prepara un brodo che va poi filtrato attraverso una garza, e che si aggiunge al riso. Se volete fare le cose per bene, programmate un giro a Burano, dove c’è la trattoria Da Romano, un luogo leggendario, citato da tutte le guide gastronomiche e visitato anche da Antony Bourdain nel suo No Reservation. Preparato al salto (cioè con una vigorosa mantecatura), è imprescindibile.
Risotto con le sécole
Piatto pressoché introvabile ma che qualche eroico e valoroso ristoratore si ostina ancora a preparare. Le sécole sono i pezzetti di carne ricavati dalle vertebre del manzo. Vengono fatte rosolare nel soffritto e cotte a fuoco dolcissimo per un paio d’ore. Ad esse viene quindi aggiunto il riso chiudendo con mantecatura finale obbligatoria.
Pasta e fagioli
Grande classico veneto, viene declinata in versioni diverse per consistenza e tipi di pasta a seconda della provincia di riferimento. La minestra, nella versione veneziana, diventa talmente densa da sostenere in piedi il cucchiaio, confermando che a Venezia la consistenza è tutto. Tra risotti all’onda e minestre dense, è tutto un gioco di equilibrio e di interpretazione. Piatto poverissimo, prevede tuttavia un’unica prescrizione: la provenienza dei fagioli, rigorosamente di Lamon, nel feltrino, a 600 metri di quota. Uno dei piatti tipici della festa del Redentore, a luglio: vietata qualsiasi obiezione circa l’apparente conflitto con la temperatura estiva.
Spaghetti alla busara
Se è giusto riconoscere e citare le origini triestine della busara di scampi (istriano-dalmate per la precisione), Venezia ha il merito di aver trasformato la ricetta in un primo piatto ricco e imprescindibile. Scampi, pomodoro e peperoncino compongono un piatto che è una continua rincorsa tra la dolcezza dello scampo carnoso e la piccantezza del peperoncino, e un’esaltazione delle sfumature che vanno dai colori accesi del rosso, al rosa tenue delle carni dei crostacei. Il nome? Secondo alcuni deriverebbe dal recipiente di coccio usato sulle navi per cucinare, la busara appunto.
Fegato alla veneziana
Ovvero, come comporre i contrasti: da una parte il sapore intenso del fegato, dall’altra la dolcezza della cipolla. Rispetto alla tradizione che vorrebbe fegato di maiale, dal gusto deciso, oggi si preferisce usare quello di vitello o di vitellone, più delicato. Sappiate che comunque l’uso del vitello è citato già nella prima ricetta codificata del piatto, quella riportata nell’Apicio moderno di Francesco Leonardi, anno 1790 (“Fegato di mongana alla veneziana”: la mongana è la vitella da latte”). La carne viene tagliata a listarelle e cucinata insieme alle cipolle bianche, meglio se di Chioggia, che non vanno tritate ma tagliate a metà e affettate sottilmente. E’ un piatto che esalta la morbidezza in tutte le declinazioni: qui consistenza e sapore vanno a braccetto.
Sarde in saor
Chi ha preso appunti dirà che le abbiamo già elencate parlando dei cicchetti: il fatto è che, un po’ come le schie e polenta, o il baccalà mantecato, anche le sarde diventano un cicchetto, un antipasto o addirittura un secondo. Un’accortezza: il discrimine, qui, è rappresentato dai pinoli. Se li trovate significa che il ristorante è uno di quelli meritevoli.
Fritto misto
Croce e delizia di ogni frequentatore di ristoranti veneziani. Perché può passare, in un attimo, dall’essere un capolavoro di croccantezza bollente ad una delusione freddina e molliccia. Come salvarsi? Con molta fortuna e scegliendo i posti giusti, per esempio quelli di cui vi parliamo noi. Anche sulla frittura, come sul resto, ci sono dei fondamentali da seguire: il nome. A Venezia si dice “scartosso”, cioè cartoccio: i fritti, una volta scolati dall’olio bollente, vengono sistemati in un cono di carta paglia e serviti subito. Poi, gli ingredienti: gamberi, calamari, sarde, granchi, seppie, merluzzo e barboni ma anche verdure, in particolare le castraure di Sant’Erasmo, cioè i primi germogli della pianta di carciofo, che si raccolgono per primi, verso metà aprile. Poi, ultime due cose: la pastella e una riflessione filosofica sul concetto di frittura. A Venezia si usa poca farina, alcuni addirittura non la usano. C’è un’eccezione per la quale vi rimandiamo al piatto seguente, che è uno dei motivi di grande entusiasmo dimostrato dai turisti più raffinati, che arrivano in laguna con un interesse gastronomico al pari di quello culturale.
L’ultima notazione, come promesso: nonostante ci sia qualcuno che lo sostiene, lo scartosso non è esattamente un tipo di street food. Il fatto è che i cartocci risalgono al 1700, quando i fritolini (o fritoini) sparsi in città vendevano pesce fritto a poco prezzo (in particolare quello di taglia piccola, che non si poteva cuocere altrimenti). Insomma, dimensione popolare prima ancora che cibo di strada. Se volete approfondire cercate Osterie Veneziane di Elio Zorzi, uno tra i migliori volumi sulla gastronomia lagunare mai scritti.
Moeche
Come anticipato al punto precedente in fatto di frittura, ecco a voi le moeche. C’è chi programma la visita a Venezia in base alla stagione delle moeche, che dovrebbe essere aggiunta di diritto alle 4 stagioni tradizionali. Per quelli che ancora non la conoscessero, la storia è questa. In primavera, così come in autunno, i granchi lagunari si trovano nella fase della muta: perdono cioè il vecchio carapace per formare quello nuovo. Un lasso di tempo breve, in cui sono indifesi, senza corazza, disarmati: qui diventano moeche e qui, drammaticamente, sono oggetto di raccolta da parte di pescatori esperti (Chioggia e Burano). I moecanti usano le trezze, reti collocate nei fondali bassi della laguna e si aiutano con le serraglie, lunghi sbarramenti di pali e reti a cui sono collegate le trappole a imbuto (i cogòlli). Dopo la cattura, si trasferiscono in sacchi di juta per mantenerne l’umidità e si trasportano ai casòni: qui avviene la selezione, separando i granchi già maturi da quelli prossimi alla muta, che sistemati in casse di legno e semisommersi in acqua marina diventeranno moeche.
Per i precisini: moeca è il nome del maschio del granchio, le femmine si chiamano masanete (vedi sotto). La ricetta tradizionale vuole che le moeche siano solo infarinate e poi fritte (prima però vanno bucate con uno spillo per far fuoriuscire l’acqua interna). Esiste però anche una seconda versione, una frittura ingorda, che prevede che siano immerse ancora vive nell’uovo per un paio d’ore. Soffocate dall’uovo, le moeche finiscono infine nell’olio bollente. Un storia violenta, indubbiamente, ma un morso croccante fa dimenticare ogni remora animalista.
Masanete
Seguono un ciclo di muta diverso, tra maggio e luglio: in autunno, quando sono piene di uova, non mutano più e, una volta catturate, sono mangiate con il coràl (le uova). Vengono cucinate (ancora vive) in una pentola d’acqua e aceto e servite poi con un trito di prezzemolo e aglio, olio, sale e pepe. Ottime con la pasta.
Bisato su l’ara
Qui ci vuole il vocabolario. Il bisato è l’anguilla e la ricetta, tipica dell’isola di Murano, fa riferimento all’uso di cuocerla (specie gli esemplari più piccoli) sull’ara, cioè la pietra delle fornaci delle vetrerie sulla quale venivano fatti lentamente temperare i vasi di vetro una volta che i maestri soffiatori li hanno lavorati e decorati. Oggi si consuma arrostita, ma l’effetto è il medesimo.
E’ un piatto delizioso, in cui le carni perdono il grasso naturale e diventano morbidissime, aromatizzate dall’alloro. Elio Zorzi, sempre lui, illustre cantore dalla gastronomia lagunare, descrive la ricetta in questo modo sublime: “L’isola di Murano suol associare il culto dell’anguilla ai riti del fuoco, che essa dedica ai meravigliosi vetri soffiati, che escono dalle sue fornaci. Sulla fornace ardente, dove il vetro si fonde, in ampie bacinelle di zinco, le anguille opime, abbellite da poche fogli di lauro, vengono poste a cuocere, senz’altro condimento che il loro grasso naturale; ne deriva quella bianca delicatissima ghiotta vivanda, che nel nome di bisato su l’ara sembra unisca lo stuzzicante odor del convito alla solennità del sacrificio pagano”.
Polenta e schie
Le schille, schie in dialetto, sono dei piccolissimi gamberetti di laguna. Di colore grigio, diventano rosa una volta cotti. Nonostante le dimensioni, hanno un sapore molto intenso e concentrato e per questo vanno a braccetto con l’onnipresente polenta. Attraversano il menu essendo fieramente servite sia come antipasto che come secondo. Si gustano in due modi: fritte (intere, senza togliere il carapace), o bollite per paio di minuti e poi condite con olio, aglio e prezzemolo. Vengono disposte sulla polenta morbida e calda. Tempo di degustazione: 2 minuti.
Seppie al nero con polenta
È lo Yin e yang della gastronomia veneziana, la bicromia capace di riassumere il senso del gusto. Nero e bianco, mare e terra, dolcezza sapida. Il contrasto è tutto, in questo grande classico della cucina lagunare, perché è proprio dalla cupezza dell’inchiostro e dal bianco della polenta che si scrive la tradizione.
Semplice da preparare, diventa perfetto se si seguono due consigli: quello di aggiungere il nero nella salsa a fine cottura, poiché tende a rapprendersi quando è esposto al calore, e quello di usare solo polenta bianca, per accentuare il contrasto. Le variazioni sul tema delle seppie al nero sono gli spaghetti ed il risotto, consigliatissimi tra i primi piatti. Storica la rivisitazione di Massimiliano Alajmo, il piatto “Cappuccino di seppie al nero”.
Castradina
Il piatto della Madonna della Salute; assieme al Redentore è la festività più sentita dai veneziani. Celebrata ogni anno il 21 novembre, la festa segna la fine della pestilenza che colpì la città nel biennio 1630-1631. Doge e senato chiesero l’intercessione della Vergine per far finire l’epidemia, facendo voto di erigere una chiesa intitolata alla Madonna: nel novembre del 1631 la peste abbandona la città e il voto viene mantenuto con la costruzione della Chiesa della Madonna della Salute. L’uso di gustare la castradina, carne di montone castrato, salata e affumicata, proveniente dalla Dalmazia, deriverebbe dal fatto che durante la pestilenza se ne consumarono grandi quantità, ritenendo che fosse meno passibile di trasmettere il virus.
Il nome per esteso del piatto è “castradina s’ciavona“, per il riferimento alla Schiavonia, area che comprendeva la Dalmazia, la Bosnia e l’Albania (e da cui prende il nome la Riva degli Schiavoni), da cui provenivano le genti slave di Ragusa, Sebenico, Budva, Cherso, Durazzo e Dulcigno, che detenevano il monopolio dell’importazione della carne, favoriti dalle esenzioni doganali. La preparazione è piuttosto lunga e il sapore è per stomaci forti. Si consuma accompagnata dalle verze.
Bussolà
A Burano non si va solo per il risotto di go, ma ci si deve fermare obbligatoriamente anche per il bussolà (il nome completo è appunto è “bussolà buraneo”). Vi abbiamo portato a vedere come si fa e se da allora avete concluso che è un biscotto di pasta frolla vi invitiamo ad un secondo assaggio più approfondito. La frolla è la base da cui partire: il segreto sta nel burro (molto), nei tuorli d’uovo e nel rum. Il risultato è un impasto il cui sapore è indimenticabile: mai troppo dolce, è una frolla elevata al cubo, con il rum a invogliare al morso successivo. Pare fosse preparato dalle mogli dei pescatori e dei marinai per affrontare lunghi viaggi in mare vista la natura sostanziosa della ricetta. L’originale è quello grande “a ciambella”, ma nel tempo se ne sono aggiunte comode versioni da borsetta: i bussolai da 5-7 cm e gli “esse” (maschile, mi raccomando), serpentina che trovano connubio perfetto con il vino dolce.
Zaleti
Il nome deriva dall’impiego di farina di mais (farina gialla, appunto, da cui “gialletti”, zaleti): sono dei biscotti dalla consistenza abbastanza morbida a cui l’uvetta ammollata nel vino arriva a dare ulteriore masticabilità golosa.