Scrive così Muriel Barbery nel suo romanzo Estasi Culinarie: “Una pietanza deve essere una gioia per la vista, per l’olfatto, per il gusto, ma anche per il tatto […]. L’udito non sembra avere molta voce in capitolo, ma è pur vero che l’atto del mangiare non è caratterizzato né dal silenzio né dal baccano […]: in questo modo il pasto si rivela decisamente sinestetico”.
La sinestesia, quel turbinio scomposto per cui tutti i sensi si coinvolgono e si influenzano a vicenda nell’atto gastronomico. L’innesco di questo meccanismo psichico è alla base della maggior parte delle strategie degli chef e dei conseguenti trasporto, goduria che si generano nel consumatore. Giocare con consistenze inattese, evocazioni della memoria, costruzioni scenografiche, fa si che i sensi si ricombinio in modo a volte incongruo rispetto alle aspettative precostituite, così innescando alterazioni alla palatabilità dei cibi e dando accesso ad anfratti sensoriali nuovi.
Tutto ciò non solo è ampiamente sdoganato nella cucina d’autore, ma è addirittura alla base del filone culinario dominante fino a pochi anni fa: la cucina molecolare inventata da Ferran Adrià. Decostruendo la percezione del gusto, sull’esplicita scia del decostruttivismo filosofico di Jacques Derrida, Adrià ha insegnato al mondo culinario l’arte dello stravolgere, confondere, dissolvere certezze percettive consolidate.
Sembra che a tali scopi tutte le tecniche e gli espedienti siano ammessi, fuorché l’uso dei coloranti, che almeno in alcune culture come quella italiana soffrono di un ostinato sfavore. La meccanica percettiva che si attiva nel gesto del mangiare è molto condizionata dai colori del cibo. È ovvio per i colori “naturali”, che aggiungono sfaccettature sensoriali a quello che mangiamo, basti pensare che un pomodoro rosso intenso sarà più dolce e ricco di uno sbiadito ancor prima dell’assaggio. La domanda è dunque perché escludere il ruolo del colore dall’universo percettivo quand’anche questo venga da coloranti aggiunti?
Parlando del caso italiano, il pregiudizio culturale è evidente ad esempio in molte scelte commerciali. Il Kit Kat verde (al tè matcha) è raro se non del tutto assente sul mercato non certo perché agli italiano non piaccia il tè verde, ma solo per diffidenza verso i colori “innaturali”. La Ferrero fino a non molti anni fa prevedeva solo i gusti arancia e menta per le Tic Tac, riservando ai mercati esteri molte più varianti “colorate”.
Questa avversione ha un’origine piuttosto scontata, che risiede nell’amore (ossessione?) nostrana per tutto quanto nel cibo sia semplice, riduttivo, non artefatto. Questo non è certamente un male, ma è un paradigma che vale la pena mettere in discussione, non foss’altro che per ragioni speculative.
Intanto il confine tra naturale e artificiale è sfumato. Ad esempio, i coloranti aggiunti sono normalmente essi stessi di origine naturale. Inoltre ciò che a volte diamo per scontato essere colore naturale, è il risultato di un artificio. Le carote, da viola scuro, diventarono arancioni nel Seicento per esplicita intenzione degli agronomi di corte in Olanda, come omaggio alla casata reale (gli Orange).
Inoltre non c’è ragione ovvia per cui il massimo della desiderabilità, della perfezione nel cibo sia determinato solo dalle sue qualità naturali intoccate. La meticolosità e artefazione con cui le madri giapponesi preparano la bento box (la schiscetta a comparti) ai figli per la scuola risponde al tentativo di far apparire il cibo non solo naturale, ma più perfetto di quanto la natura da sé possa fare. Come osserva l’antropologa Anne Allison, nella cucina Giapponese, la natura non è solo rappresentata, ma inglobata e superata. Perché i coloranti dovrebbero essere esclusi da questa visione delle cose?
Il tema dunque è il colore come ingrediente. È vero che non dà sapore ai cibi, ma se da una parte può aumentare l’esperienza percettiva attraverso altri canali sensoriali (ad esempio, innescando uno stato d’animo predisposto al godimento del gusto dolce), è anche vero che il colore agisce in modo indiretto sul gusto, alterando la percezione di altri ingredienti o composti aromatici. Tornando all’esempio del pomodoro, questo avrà un sapore più dolce e ricco solo perchè più rosso di altri. Citando RIccardo Falcinelli, tra i massimi visual designer italiani, il colore prima di tutto è aspettativa.
Oltre che del gusto gusto, il colore può modificare la percezione anche delle consistenze. Pensiamo alla qualità opaca e profonda della zuppa di miso chiaro, color bianco perla. Qui il colore diventa consistenza, densa e misteriosa, in un processo di traslazione sinestetica a tutto campo.
L’ingrediente-colore può avere anche una sua autonomia, slegata dagli effetti indiretti che produce sul senso del gusto. Questo accade quando l’ingrediente-colore ha una suo storia, una sua propria evocazione, magari in quanto derivato da un’erba rara o una bacca preziosa. È il caso dell’annatto nella cucina messicana, il cui unico ruolo è donare ai piatti un rosso intenso e ossidato. Oltre l’effetto estetico, l’annatto dona ricercatezza al piatto ed evoca simbolicamente il folklore e la biodiversità locali.
Possiamo spingerci oltre fino ad argomentare come il colore abbia esso stesso sapore, o almeno sia in grado di provocarne l’illusione. Sempre Falcinelli in Cromorama (2017) discute un esperimento in cui ad alcuni sommelier si è proposto un bicchiere di vino bianco tinto di rosso, e come questi abbiano avvertito aromi di ribes propri solo, naturalmente, del vino rosso.
Dopo gli anni del nero – ricordiamo tutti l’ubiquità del carbone vegetale – il 2019 si chiude con un anticipazione che avrebbe avuto conseguenze singolari in cucina: Pantone annuncia il colore dell’anno, il Classic Blue. Chef ma soprattutto fornai e pasticceri un pò da tutto il mondo accettano la sfida e iniziano a sfornare focacce o pagnotte che sembrano appena uscite da una carrozzeria. La moda impazza particolarmente in Brasile, dove il frutto locale jenipapo, se trattato adeguatamente in cottura, è in grado di rilasciare pigmentazioni blu acceso.
Il blu è molto raro da incontrarsi in natura e in aggiunta è un colore difficile per il cibo poiché non è associabile a nulla di edibile. Al contrario, richiama straniamento e pericolo in quanto associato a composti sintetici come le vernici o nocivi come certe muffe. Per questo il colorante blu recide l’automatismo percettivo e distrae l’osservatore dalla natura edibile del pane, innescando reazioni percettive inattese. Si potrebbe dire nulla di nuovo sotto il sole (blu?) visto che già il grande artista contemporaneo Man Ray aveva esplorato negli anni ‘60 simili implicazioni con la sua opera Pane Blu. De-familiarizzando l’estetica comune del pane, l’artista invita a esplorare significati ulteriori e simbolici dell’alimento più scontato e comune di tutti.
Simboli e intenzioni sociali sono anche dietro l’apparentemente ingenua campagna commerciale con cui Oreo lanciò una linea dei suoi famosi biscotti colorandoli di rosa con ripieno verde. Sono i colori dell’album Chromatica di Lady Gaga a cui la campagna si associava. “La combinazione di colori trasforma ogni biscotto in una chance per diffondere gentilezza”, recita lo slogan. Dunque una combinazione di colori gioiosa, ingenua, quasi infantile, usata per trasmettere un messaggio sociale positivo che amplia i semplici connotati gustativi.
C’è un esempio nella gastronomia italiana che fa da eccezione all’avversione per i colori aggiunti: il celeberrimo risotto zafferano e oro di Gualtiero Marchesi. Nell’arte bizantina, il color oro, in quanto vivo e cangiante alla luce, era un richiamo allo stupore e al mistero del divino, nonché una metafora della luce stessa di Dio. È un piatto ormai démodé, ma se ci capitasse ancora di assaggiarlo, e se incontrerà il nostro gusto, potremo a ragion veduta esclamare “divino!”.