Considera l’Aragosta è il mio impero romano. Spesso e volentieri mi capita di citare questo ibrido fra reportage, saggio e riflessione a firma David Foster Wallace. Apparso per la prima volta sul magazine Gourmet nell’agosto del 2004, Consider the Lobster è un capolavoro di giornalismo osservazionale. Che, oltre a fare più che egregiamente il suo lavoro a livello di informazione e intrattenimento, va ben oltre la storia che si è preposto di raccontare.
In breve: la cronaca del Maine Lobster Festival, la più importante sagra della costa est degli Stati Uniti a tema aragosta. Nonostante la cronaca di Wallace abbia più di vent’anni, il pezzo non è invecchiato di un giorno. Considera l’Aragosta resta più attuale che mai, affrontando temi come specismo, sofferenza animale, dissonanza cognitiva rispetto ai nostri valori e cosa poi abbiamo nel piatto.
Vale la pena rispolverarlo, senza contare il fatto che è scritto da dio. La prosa ironica e tagliente di Wallace è una delizia, da cui traspare molto più del quadretto dolce amaro di una sagra qualsiasi. C’è dentro tutta la nostra società e il modo distorto in cui si relaziona al cibo. In vent’anni di storia è rimasto lo stesso, se non addirittura peggiorato. Ecco perché serve parlarne.
Di cosa parla Considera l’Aragosta
Siamo alla 56esima edizione del Maine Lobster Festival, evento annuale di fine luglio celebrato nelle cittadine costiere di Camden e Rockland. Quest’anno (è il 2004) partecipiamo alla grandiosa Sagra dell’Aragosta insieme al “corrispondente designato” Mr Foster Wallace. Il puntuale reporter scrive per conto della rivista Gourmet che, a conti fatti (e per sua stessa ammissione), potrebbe pentirsi di avergli affidato il lavoro.
Come mai? Il nostro non è esattamente un fan dell’evento. Fra concerti, concorsi di bellezza, giostre, parate e interminabili code per panino all’aragosta e varianti sul tema, è facile spazientirsi. Così, spesa qualche osservazione fra il divertito e il sarcastico, Wallace divaga. Sempre, tuttavia, rimanendo sul tema principale: ovvero, spiegarci tutto lo scibile sulla lobster. Definizione tassonomica, etimologia, biologia, accenni a etologia, differenze stagionali, storia del suo consumo, modi di cucinarla.
E poi, all’improvviso, una serie di riflessioni profonde e ponderate su come trattiamo l’aragosta, che ci portano appunto a considerarla nel senso più primario del verbo. [Da Treccani: “esaminare attentamente una cosa, riguardandola in sé e nelle sue relazioni e conseguenze”]
Specismo
Lo specismo, sempre secondo Treccani, è la “convinzione secondo cui gli esseri umani sono superiori per status e valore agli altri animali, e pertanto devono godere di maggiori diritti”. Convinzione evidentemente diffusa e pervasa, basta guardare alla gerarchia artificiale che ci abbiamo costruito intorno. Innanzitutto c’è una chiara suddivisione tra umani e animali. E poi: animali di serie A (i pets come cane e gatto) e serie B, i domestici fino a un certo punto che prima o poi finiscono nel piatto (mucca, maiale, gallina). I serie C come pesci o anfibi, che fanno meno pena perché tanto non emettono versi. Fino a quegli invertebrati considerati troppo disgustosi perfino per le nostre papille, e che invece paradossalmente potrebbero rivelarsi cibo (più) sostenibile e denso di nutrienti per il futuro. Parlo degli insetti ovviamente.
Lo specismo riguarda anche il modo in cui trattiamo gli animali destinati al consumo. Pensiamo alla tortura, vera e propria, e indagata più e più volte in enne reportage, cui vengono sottoposti polli, maiali, bovini da allevamento. Ripensiamola sugli esseri umano: no, vero? Neanche nei peggiori campi di concentramento. Ecco, tutto il classificare e sminuire la vita e sofferenza animale rispetto a quella umana fa parte di questa convinzione.
Foster Wallace parte da qui, ragionando sulla questione cardine del pezzo: ovvero se l’aragosta prova dolore al momento dell’uccisione. Inizia dallo specismo e dai valori filosofici a esso collegati – metafisica, epistemologia, teoria del valore, etica. Scrive: “Il fatto che anche i mammiferi non umani più evoluti non possono usare il linguaggio per comunicarci la loro esperienza mentale soggettiva è solo un primo strato aggiunto di complessità nel cercare di estendere il nostro ragionamento su dolore e morale rispetto agli animali. E tutto ciò diventa progressivamente più astratto e convoluto se ci spostiamo sempre più lontano dai tipi superiori di mammiferi […] seguiti da uccelli e pesci, e infine gli invertebrati come l’aragosta”.
Sofferenza animale
Il dolore dunque è centrale nel pezzo, e naturalmente non si limita soltanto all’aragosta. Tutti gli animali che vengono uccisi per la loro carne provano dolore, e il fatto che non possano comunicarcelo a parole assolve in parte la coscienza. Anzi, la coscienza stessa ultimamente si inventa modi per auto assolversi ancora di più. Diciture quali “galline felici” o “macellato con metodi umani” aiutano questo meccanismo di pulizia del senso di colpa. Se la confezione di carne al supermercato riportasse come quell’animale è stato ucciso effettivamente, la scegliereste ugualmente?
Si tratta, senza scendere in troppi dettagli filosofici, della teoria utilitarista. Che vede come bene supremo la felicità, tenendo conto di alcuni, inevitabili compromessi. Come il dolore, fatto della vita che va accettato, e pazienza se serve a portare il cibo nel piatto. L’importante, sempre secondo l’utilitarismo, è che prima di quel dolore e di quella morte annunciata, si sia condotta una vita degna di essere vissuta. Il fatto che ciò venga sempre assicurato tramite le più varie e ingegnose strategie di marketing, ci fa capire che nella stragrande maggioranza dei casi non è vero neanche quello. Andatevi a fare un giro in un qualsiasi allevamento, e veniteci a parlare di benessere animale.
Dunque, tornando a Wallace, la domanda sorge spontanea: “È giusto bollire viva una creatura senziente solo per il piacere gustativo?”. Nel cosiddetto World’s Largest Lobster Cooker la faccenda avviene, a differenza delle porte chiuse e quasi astratte dei macelli, direttamente davanti al consumatore. E di nuovo si torna allo specismo: provate a immaginare la stessa spettacolarizzazione del dolore al Nebraska Beef Festival, si chiede Foster Wallace. O magari alla Sagra del Bue di Carrù, direi io. A un certo punto arrivano i camion e scaricano i bovini sulla rampa per essere macellati live. A differenza delle aragoste allegramente gettate in acqua bollente, qui non credo riuscireste a guardare.
Come soffre l’aragosta
Bollita o uccisa con uno o più colpi secchi, il problema del dolore dell’aragosta è una questione raramente affrontata. Da una parte, lo abbiamo detto, per il suo status di invertebrato molto giù nella piramide delle specie. Dall’altra, perché è diffusa la convinzione che l’aragosta non sia in grado di provare dolore: di nuovo, problema scomparso e coscienza pulita. Le cose però non stanno così, e ci pensa Foster Wallace a confutare la questione.
I criteri su cui gli specialisti di etica concordano per determinare se un organismo abbia la capacità di soffrire sono essenzialmente due. Il primo riguarda la struttura, ovvero se un essere vivente abbia gli strumenti fisiologici per provare dolore (nocicettori, prostaglandine, recettori oppiodi neuronali). Il secondo riguarda la presenza o meno di comportamenti associati alla sofferenza. Ci vuole un bel po’ di “ginnastica intellettuale” scrive Foster Wallace, per non voler ammettere che nel caso dell’aragosta ci sono. I dibattimenti, gli urti violenti, lo sferragliare di coperchi dei pentoloni: tutto fa pensare a una lotta disperata per la sopravvivenza.
Ora, se è vero che il sistema neurologico degli invertebrati è sicuramente più primitivo di quello degli esseri umani, d’altra parte anche il dolore lo è. È stato dimostrato che l’aragosta ha nocicettori (recettori del dolore) e che è particolarmente sensibile al tatto. E nonostante la sua “armatura” di chetina che pare così impenetrabile, essa riceve e subisce gli stimoli esterni come se non fosse provvista di alcun carapace. In più, non possiede un sistema nervoso abbastanza avanzato da assorbire gli oppioidi naturali, ovvero quelle sostanze prodotte dall’organismo per gestire e mitigare il dolore.
Da cui l’amara verità: se possibile, l’aragosta è molto più vulnerabile al dolore di altre specie. E nonostante certi discorsi che spaccano il capello sulla questione, non si può negare la preferenza (definita dall’autore in termini etologici) dell’aragosta a non volersi trovare in quella situazione. Se un essere vivente è in grado di esprimere quella preferenza attraverso un comportamento, possiamo dedurre che sia in grado di provare dolore. No grazie, sembra dire l’aragosta, anzi: no, ti prego.
Dissonanza cognitiva
C’è un episodio dei Simpson che tutti hanno visto almeno una volta: “Lisa Gets an A” settimo della decima stagione. Nella sotto trama, Homer compra un’aragosta con l’intenzione di mangiarla. Presto però ci si affeziona, chiamandola affettuosamente Pizzicottina. Tra l’altro, cosa è di più Simpson-coincidenza del fatto che la specie del Maine si chiami Homarus americanus?
Questa premessa serve a ricordarci per l’ennesima volta quanto il mangiante medio di questo pianeta sia vittima della dissonanza cognitiva quando si tratta di consumo animale. Ho già parlato a profusione dell’argomento, per cui qua mi limito alle osservazioni di Foster Wallace. Che, da bravo osservatore, si era già accorto di questo disagio sotteso al consumo di carne. L’autore ammette che “la strategia che adotto per non farci i conti è non pensarci affatto”.
Nel caso dell’aragosta però è un po’ più difficile, visto che si tratta dell’unico animale che oggi, a livello domestico, viene ucciso direttamente da chi lo mangia. E possiamo raccontarcela (come fanno anche gli interessati pescatori e rivenditori) che “ha il sistema nervoso di una cavalletta per cui non ha cervello, quindi non prova dolore”. Possiamo evitare la questione, ad esempio cacciando l’aragosta in pentola e scappando in un’altra stanza della casa fino a quando non si sentono più “rumori”. Senza ammettere a noi stessi che se fosse un altro animale corrisponderebbero a urli.
Ci viene così facile distaccare l’animale vivo dalla sua carne (in inglese addirittura indicandolo con sostantivi diversi) che quando ci troviamo di fronte alla responsabilità di farlo fuori da soli, o di assistere all’uccisione come capita in questi eventi, finalmente (forse) avvertiamo un po’ di disagio. E non si capisce perché saremmo pronti a proteggere a spada tratta il nostro animaletto domestico, mentre mangiamo la bisteccona senza battere ciglio. Forse perché a pensarci bene poi si fa come Homer alla fine dell’episodio: mangiare l’aragosta piangendo, perché Pizzicottina da viva aveva significato qualcosa.
Novelty foods
C’è infine una questione in coda, che però vale la pena esplorare (o perlomeno considerare). Riguarda i novelty foods, quei cibi “nuovi” al consumo che piano piano vengono inseriti nell’alimentazione di massa. Va detto però che spesso come fonte nutrizionale sono sempre esistiti, considerati di nicchia perché adottati da popolazioni lontane o perché la sensibilità comune li ha sempre rigettati fino a quel momento. Credete che parli di insetti? Macché: qui la protagonista è sempre l’aragosta.
Racconta Foster Wallace che anche questo invertebrato è stato bistrattato all’origine del suo consumo. Del resto, non c’è crostaceo più simile a un grande “insettone” di mare, e proprio il suo aspetto e abbondanza ne hanno caratterizzato il giudizio iniziale. Difatti, scrive l’autore, fino al Diciannovesimo secolo l’aragosta era cibo da poveri o galeotti. E perfino nelle prigioni del New England esistevano leggi che proibivano di servire aragosta più di una volta a settimana, perché considerata pratica “crudele e inusuale, come dar da mangiare ratti”. Dell’aragosta, nel Maine del 1840, si faceva fertilizzante. Oppure veniva inscatolata, molliccia e poco saporita ma ricca di proteine, e spedita in California come “carburante da masticare”.
Raggiunto lo status di risorsa rara causa overfishing, e di leccornia per le tecniche burrose usate per prepararla, l’aragosta è il cibo di lusso che conosciamo oggi. Leggermente sotto al caviale ma immensamente più pregiata di astice e granchio, l’aragosta è l’equivalente marino della bistecca. Come ci ricorda l’autore, non è un caso che nel Surf&Turf siano proprio questi due ingredienti a essere accostati. Dunque, è tutta una questione di prospettiva. Chissà, magari fra qualche anno la larva della farina sarà l’ultimo grido sulle tavole dei ricchi.
Cosa scriverebbe oggi David Foster Wallace?
In realtà non serve usare troppo l’immaginazione. I semi nel pezzo ci sono già, così come le considerazioni su scala globale rispetto ad alimentazione e trattamento degli animali. Fra le note, Foster Wallace riporta le tecniche disumane degli allevamenti intensivi. Dal mutilare becchi, corna, code, al far vivere forzatamente migliaia di esemplari in spazi ristretti, all’automazione totale come se si stessero producendo oggetti, non esseri viventi. Lo stesso autore ammette che non sapeva praticamente nulla dell’industria della carne “standard” prima di lavorare su questo articolo.
Anzi, alla luce dell’argomento trattato, Foster Wallace concede che l’industria delle aragoste non è poi così messa male come quella della carne. Peccato però che questa non venga così facilmente considerata, visto che arriva già pronta, impacchettata, asettica come se a capo della filiera non ci fosse stato un animale vivo. All’epoca, con internet limitato e una scarsissima presa di coscienza, esistevano solo associazioni come PETA (più volte citata nel pezzo) a far luce sul tema. Con l’esperienza di oggi (pandemia, reportage, fake news, aumento del movimento vegano) cosa scriverebbe David Foster Wallace?
Da bravo unitore di puntini, probabilmente parlerebbe di come gli interessi dell’industria della carne si intreccino a quelli politici e di propaganda. Di come la crisi agricola, climatica e ambientale sia profondamente legata all’impatto dell’allevamento intensivo. Di come le prossime pandemie e crisi sanitarie da resistenza da antibiotici saranno legate (se non dovute direttamente) alle pratiche insostenibili cui sottoponiamo centinaia di milioni di animali al giorno. Al giorno, avete letto bene. E di come probabilmente fra molti anni, guarderemo indietro a questo sistema e ci chiederemo: come abbiamo potuto?
L’ultimo concetto non è farina del mio sacco, arriva direttamente dal pezzo. Scritto da uno che di certo non è un estremista, anzi lì per lì l’idea gli sembra davvero assurda. Però a pensarci bene, tolte le dissonanze, l’interesse personale e le convinzioni di una vita, all’improvviso assume un senso. Basta davvero poco per rendersene conto: a volte, ci vuole soltanto un’aragosta.