Agosto, caldo, ferie, tutti al mare a mostrare le chiappe chiare. Insomma: nel periodo più caldo dell’anno finiamo in autostrada, chi diretto a nord, chi a sud, chi in riviera, chi sui monti.
L’aria è rovente, il viaggio lungo ed ecco che tocca fermarsi: per prendere un panino, un caffè, per un pit-stop alle toilette.
Magari addirittura per pranzare. E lì, diciamocelo, son dolori.
Mangiare in un’autososta di catena è deprimente: prodotti industriali, progettati magari con astuzia ma con food cost ai minimi, spesso serviti alla volemose bene, prezzi stellari (il top son quelli che hanno la bottiglietta d’acqua esclusivamente da 75 cl e la vendono a due euro e cinquanta).
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Ma davvero non è possibile fare di meglio? Come diavolo è possibile che il livello della proposta on-the-road sia così basso?
Immagino il problema derivi dalla difficoltà di accesso al settore che vede coinvolti pochi attori che sono poi prevalentemente quelle due, tre grandi catene che riescono a difendersi dalla concorrenza.
Anzi: come scrissi tempo fa, le poche eccezioni virtuose (mi riferivo alle autososte di Marene e di Carcare sulla Torino-Savona) rischiano di essere spazzate via dalla cosiddetta “razionalizzazione”.
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L’autostrada è probabilmente il non-luogo dove si mangia peggio: in un centro commerciale o un in un aeroporto –due contenitori che certo non brillano per offerta gastronomica– c’è comunque più scelta.
Alla fine la cosa migliore, se ci si riesce a organizzare, è uscire. E fermarsi a mangiare sulla statale.
Che è tutta un’altra storia.