La storia della pastiera napoletana è un trattato, una tradizione che si può analizzare su più livelli: quello storico-culinario, sociologico e un terzo, probabilmente poco esplorato, linguistico.
Linguistico, sì. Perché se gran parte della della fama della pastiera è dovuta all’indubbia e grassa, felice, voluttuosa bontà di questo dolce, una minima parte la dobbiamo ad una vera e propria “filologia” che le abbiamo costruito intorno. Ma andiamo con ordine, la pastiera è sciantosa, maliziosa e provocante, vuole essere presentata.
La pastiera della tradizione spiegata da una “pezzotta”
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La pastiera napoletana è composta, nella sua ricetta tradizionale da questi ingredienti imprescindibili: guscio di pastafrolla sovente arricchito con sugna (grasso di maiale), ricotta (sia di pecora che vaccina, setacciata con zucchero), frutta candita, chicchi di grano cotti nel latte (o grano passato) uova ed essenze, che possono essere i fiori d’arancio o anche spezie come la cannella. Assomiglia un po’ ad una crostata, anche per le striscioline di pastafrolla messe a mo’ di reticolato stradale, che in effetti potrebbero rappresentare la planimetria di Napoli, almeno secondo alcuni. Presente dai tempi moderni anche una variante con crema pasticcera ad arricchire il ripieno, ma la pastiera con crema non è molto apprezzata dagli integralisti. La grandezza giusta per una pastiera, in realtà, non esiste: però un diametro di 26cm o da 33cm (circa una pizza) garantiscono una torta di altezza ed umidità giuste. Forme troppo piccole potrebbero dar luogo a difetti vari, come una cottura troppo spinta.
Sono una napoletana spuria, “non originale”, qualcuno direbbe “pezzotta“: nata e cresciuta a cavallo tra due province campane, ho sempre avuto fame atavica di leggende, chiedendone a chi ne sapeva più di me (e che ringrazio per la pazienza), storie culinarie e personaggi. Bene, per quanto riguarda la pastiera c’è una storiella molto interessante e simpatica con cui far iniziare il nostro viaggio: riguarda un detto molto conosciuto, con protagonista il nostro dolce.
Pastiera napoletana, per modo di dire
La pastiera ha addirittura un detto dedicato. Stiamo parlando del celeberrimo, almeno ai conterranei del Sud, magnatell ‘na risata, tradotto” mangia una risata”. Letteralmente non è che ci sia molto senso, come espressione idiomatica significa “sforzati, ridi un po’, che non ti fa male”.
Dietro questo modo di dire, si tramanda come leggenda una sintesi storica e culinaria che vede protagonisti una coppia di coniugi illustri, cioè il re Ferdinando II di Borbone e Maria Teresa d’Asburgo-Taschen uniti da una pastiera napoletana. Qualcuno dice anche che la regina protagonista fosse la prima moglie di Ferdinando II, Maria Cristina di Savoia, ma ci atteniamo a Maria Teresa in questa versione.
Quello che sappiamo dalla storia, è che Maria Teresa andò in sposa a Ferdinando II, dopo la morte della prima moglie di quest’ultimo: siamo nel 1837. Maria Teresa aveva un comportamento poco consono per una regina: non amava la vita di corte, detestava i salamecchi della nobiltà borbonica. Fu addirittura chiamata “la regina che non sorride mai”. A quanto pare, un sorriso riuscì a strapparglielo suo marito Ferdinando, con una fetta di pastiera, dolce del quale era molto ghiotto. Si tramanda che la regina – sorpresa dal gusto della pastiera – finalmente sorrise. E il marito (che a quanto pare di senso dell’umorismo, ne aveva) disse:
“Chistu dolce te piace eh? E mò c’ ‘o saccio
ordino al cuoco che a partir d’adesso,
stà pastiera la faccia un pò più spesso.
Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;
pe te fà ridere ha dda passà n’at’ anno!”
(Ti piace questo dolce? Ed ora che lo so, ordinerò al cuoco che da ora questa pastiera si farà un po’ più spesso. Non solo a Pasqua, ché altrimenti è un danno, perché per farti ridere dovrò aspettare un altro anno!)
La filastrocca in rima ci è giunta anonima: trovo bellissimo che – leggenda o verità che sia – ci sia un posto speciale nella storia per la pastiera napoletana, perché lo merita tutto. Storia passata e presente, si intende, dal momento che la ricetta del dolce è stata la più googlata dell’anno 2019.
Origini, miti e leggende intorno alla pastiera napoletana
Per la storia della pastiera, dicevamo c’è da mettersi comodi: ‘o fattariello è bello lungo e denso di avvenimenti, che si perdono nelle interpretazioni di una storia millenaria quale è quella della città di Napoli. Da segnalare, ovviamente, che le torte di grano e miele erano già molto diffuse nell’antichità classica.
La nascita della pastiera non ha riferimenti bibliografici. Ci dobbiamo affidare quindi alla nutrita compagine di leggende partenopee, frutto di un popolo con una immaginazione fervida.
La storia più quotata è – manco a dirlo – quella che racconta l’origine conventuale della pastiera – che al momento in effetti ci sembra quella più aderente alla realtà. Nel convento di San Gregorio Armeno – la strada arcinota come “la via dei presepi” in quel di Napoli – durante il XVI secolo le consorelle dell’ordine benedettino cercavano un dolce che rappresentasse la morte e la resurrezione di Cristo. Prendendo ingredienti comuni ad altre preparazioni dolci napoletani, alcune coeve del periodo, venne fuori la pastiera, ben presto dolce preferito dagli aristocratici napoletani, che ne richiedevano in grande quantità.
Ma di pastiera abbiamo tracce antichissime: dobbiamo ripercorrere a ritroso la storia fino ai miti di Cerere, alle celebrazioni in onore dell’arrivo della primavera: celebrazioni che abbiamo tirato in ballo anche in un precedente articolo, parlando delle zeppole di San Giuseppe, che in effetti sono tradizionali di un periodo appena antecedente alla Pasqua canonica. In queste cerimonie si portavano in processione diversi simboli primaverili, la “rinascita” della Terra.
I napoletani amano molto la leggenda pagana che vede protagonista la sirena Partenope, che elesse il golfo della città come sua “abitazione”; per ingraziarsi la divinità, la leggenda continua narrando delle sette fanciulle che portarono alla sirena sette simbolici doni: farina, grano, zucchero, ricotta, acqua di fiori d’arancio, uova, spezie varie. Dalle mani della sirena, nacque il composto che conosciamo come pastiera napoletana.
Un’altra leggenda partenopea è sempre legata al mare, ma vede come protagonisti le mogli dei pescatori. Queste, si dice, solevano lasciare sul bagnasciuga i famosi sette ingredienti come “dono al mare”, affinché i loro mariti ritornassero sani, salvi e con le reti piene. Un giorno – e qui le versioni si contraddicono un po’: qualcuna riporta in un giorno di tempesta, qualche altra versione, un giorno qualunque di pesca – le mogli videro ritornare non solo i loro mariti con le reti piene, ma si videro restituire dal mare una pastiera bell’e pronta.
Qualcuno dice che fosse “la merenda dei pescatori” e che quindi il nome pastiera derivi da pasta ‘aier, pasta di ieri, pasta avanzata dal giorno prima. In effetti, ci viene facile immaginare il contenuto energetico elevato del dolce, adatto per una giornata di fatica per mare.
Le origini – dando per buone più o meno tutte le storie – ci riportano all’inequivocabile funzione votiva della pastiera, nonché di ringraziamento verso le divinità. Ad oggi, dopotutto, è comune abitudine ringraziare qualcuno regalando una pastiera nel periodo pasquale.
Abbiamo tracce molto più consistenti della diffusione della pastiera napoletana, invece. Un dolce scenografico, ricco, difficile da dimenticare insomma.
La diffusione della pastiera napoletana da Cenerentola al Novecento
La diffusione della pastiera sin dal Seicento a Napoli ci è confermata dal novelliere Giovan Battista Basile che, nella favola La Gatta Cenerentola (da cui Perrault attinse per la sua Cendrillon), inclusa nell’opera magna Lo cunto de li cunti (Il racconto dei racconti, forse avrete visto il film di Matteo Garrone), la nomina proprio esplicitamente:
“E,venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle”.
L’episodio, in particolare, riguarda il banchetto che il re aveva organizzato per ritrovare la fanciulla protagonista. L’esegesi di “pastiera” (cioé: si intendeva davvero davvero quella pastiera?) ce la fornisce Benedetto Croce nel 1925, con il suo commentario all’opera. Ed è proprio quella, manco a dirlo.
Facciamo un salto di un paio di secoli, precisamente atterriamo dolcemente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Altre tracce scritte della pastiera napoletana ci vengono fornite con precisione accademica dal gastronomo e filosofo adottato a corte borbonica Vincenzo Corrado.
Nella sua opera magna “Il cuoco galante” ci regala la ricetta completa della “torta di frumento“, con tanto di descrizione ed indicazione “da fare in aprile”.
” Ammollito bene il frumento in acqua, cotto in brodo e freddato, si mescolerà con panna di latte, gialli di uova, giulebbe (acqua di rose, dall’arabo medievale ǧulāb), cedro pesto, e sciolto con acqua di fiori d’aranci, con senso di ambra e d’acqua di cannella; si metterà nella cassa di pasta, la quale si coprirà con altra pasta a strisce, e si farà cuocere.”
Due parole devo spendere sull’opera che è Il Cuoco galante, così da contestualizzare questa ricetta: questo prontuario, con una prima edizione datata 1773, si offriva di sistematizzare la cucina regionale italiana ed in particolar modo la cucina napoletana. Siamo in un periodo di grosse influenze sul regno borbonico, soprattutto da parte dei francesi; Il Cuoco galante voleva offrire una panoramica della cucina, sistematizzare l’etichetta dei vari eventi, fornendo anche spiegazioni ed indicazioni sull’utilizzo stagionale di quello o quel prodotto. Quindi, possiamo facilmente capire come la qui chiamata “torta di frumento” rientrasse già a pieno titolo nelle preparazioni tipiche dei cortigiani napoletani.
Una storia destinata a durare e che ci rende verosimile anche l’inciucio riguardo Ferdinano II e Maria Teresa. La pastiera era cibo ghiotto per la corte borbonica, decisamente poco raggiungibile per il popolino napoletano, sempre affamato. Con il tempo, la pastiera ha avuto un successo trasversale come pochissimi altri dolci, diventando un’icona a tutto tondo. I venditori ambulanti di grano cotto iniziarono ad apparire agli angoli delle strade e si narra di mitologiche uappe , venditrici ambulanti, che rispondevano al nome di Pascarella (derivando da Pasqua).
Nel Novecento ha assunto la definitiva consacrazione a dolce domestico, anche dovuto al fatto che gli ingredienti sono diventati a mano a mano facilmente reperibili: una volta presa “la mano”, la pastiera è lunga ma semplice da fare. Che la pastiera sia cotta in un forno a legno di masseria oppure nel forno domestico di un condominio, essa diventa un cibo comunitario, identitario di una comunità piccola e poi grande: dalla famiglia, alle famiglie, alla città. Si dice che la vita sia una livella, ma anche la pastiera lo è.