Quando è che abbiamo iniziato a essere così cacacazzi? È un po’ di tempo che me lo chiedevo. Parlo di italiani e cibo, ovviamente, anzi di italiani e pasta. La notizia è questa: gli australiani, arrabbiati perché l’Italia ha bloccato delle dosi di vaccino destinate a loro, hanno messo in atto una singolare forma di boicottaggio.
Hanno deciso di fare tutte le ricette tradizionali di pasta nella maniera più sbagliata possibile, anzi nelle maniere che più ci fanno girare le scatole: spezzando gli spaghetti prima di buttarli in pentola, condendo la pasta ai frutti di mare con una spolverata di parmigiano, mettendo addirittura la panna nella carbonara. Non vi parte un neurone, come dice Bruno Barbieri, al solo pensiero? Perché è il pensiero che conta, anzi per il momento c’è quello e basta: la protesta è partita sui social e lì probabilmente è destinata a finire, tra un tweet e un reel di Instagram.
I will break these in half and cook them in a cream-based sauce that I will call a “carbonara”, unless Italy agrees to release the 250,000 doses of AstraZeneca back to Australia pic.twitter.com/EJuOb8kX4X
— Naaman Zhou (@naamanzhou) March 4, 2021
I boicottaggi dei prodotti, e dei prodotti alimentari in particolare, sono una caratteristica ricorrente degli scontri internazionali all’acqua di rose: i francesi ci hanno offeso, non compriamo più champagne! A volte poi, per impossibilità di colpire la cosa in sé, si colpisce il nome: ricordo, e i diversamente giovani come me ricorderanno, che quando nel 2003 la Francia si oppose alla guerra in Iraq, gli americani più accaniti proposero di ribattezzare le patatine fritte abolendo il nome French fries (per sostituirlo con l’orribile freedom fries). Ma qui facciamo un salto ulteriore: a finire oggetto del boicottaggio non è un prodotto, non è un nome, ma è un’idea, un concetto, insomma una ricetta.
E abbiamo voglia a fare della facile ironia: se vi volete mangiare la pasta scotta e condita col ketchup fate pure, problemi vostri e del vostro stomaco. La verità è che questo boicottaggio ci punge sul vivo, è un’arma efficacissima, è la punizione che ci meritiamo. Per cosa? Per essere così sensibili, così pignoli, così cacacazzi. Siamo noi infatti che ci scandalizziamo per la carbonara sbagliata di Gordon Ramsay, siamo noi che scateniamo l’inferno se Carlo Cracco mette l’aglio nell’amatriciana, siamo noi che ci triggheriamo per qualsiasi piatto devii di un millimetro dai binari della tradizione. Chapeau amici australiani, colpo di genio (ma i vaccini ce li teniamo, sorry).
Abbiamo forse torto a comportarci così, a difendere la tradizione, a essere Italians mad at food? Ma certo, che abbiamo torto. In questi giorni sto leggendo un libro di Luca Cesari, Storia della pasta in dieci piatti (Il Saggiatore). Cesari scrive di storia della gastronomia: leggere di storia del cibo – in questo libro, come in quelli di Massimo Montanari – ci fa fare passi in avanti più di mille ore passate a spignattare o a guardare show cooking. Ci fa capire che niente è dato per sempre, e che la tradizione il più delle volte è un’invenzione. Cesari parla dei piatti più iconici della nostra cucina, dalla carbonara al pesto, dagli gnocchi al ragù passando per le lasagne. Anche se, in maniera intelligente e programmatica, inizia parlando delle fettuccine Alfredo, un piatto che qui nessuno mangia, che pochi conoscono e che potrebbe sembrare puro italian sounding, e invece.
Tanti sono gli stimoli e le curiosità che vengono a galla leggendo Storia della pasta in dieci piatti, ma attraverso la storia (e la geografia) dei vari piatti due o tre sono i fili rossi, le costanti che emergono. Uno: spesso quello che sembra un piatto tradizionale, la cui origine si perde nella notte dei tempi, è recente, se non recentissimo. Esempio: la carbonara, che come abbiamo raccontato nasce dalle razioni dei soldati americani nella seconda guerra mondiale. Due: ogni piatto, anche quello che ci sembra il più immutabile, ha vissuto molteplici traversie e attraversato numerose varianti nella sua storia, e ulteriori modifiche vivrà in futuro. Aglio e cipolla nell’amatriciana, formaggio grattugiato nell’impasto degli gnocchi, ragù coi funghi e senza pomodori, e sì, persino panna nella carbonara. Ergo: non esistono ricette “originali”, non esistono ricette “vere”. Terza costante: il fatto che, una volta codificata, più o meno, una ricetta, subito questa viene cristallizzata nell’immaginario collettivo, nonché retrodatata, quando non fissata in disciplinari e simili. E impazziamo di dolore ogni volta che qualcuno prova a fare qualcosa di diverso. Perché? L’ipotesi di Cesari è che il legame con la tradizione, vera o supposta, derivi dalla paura di perdere le antiche usanze, la propria cultura, la propria identità: un processo che sarebbe iniziato con il dopoguerra, l’urbanizzazione, la frammentazione delle famiglie, la diffusione del cibo industriale e via dicendo. Possibile, ma io ho un’ipotesi più pessimistica, che ha anche fare con la natura di noi italiani: siamo cacacazzi, lo siamo sempre stati, e basta.