La pasta a fuoco spento è una buona idea? Se ne parla molto in questi giorni, dopo l’invito del Nobel Giorgio Parisi. Anzi sembra che non si parli d’altro, in una fine estate ancora calda ma in cui ci viene agitato lo spettro di un inverno passato a morire di freddo senza il gas russo. Sul tema se ne stanno sentendo di tutti i colori, dalle scandalizzate sollevazioni aprioristiche (“non sia mai, toccatemi tutto ma non la pasta!”) a ragionamenti più complessi. Ma come al solito, la domanda da farsi sarebbe una: funziona? E la risposta non può venire che da una prova sul campo: quella che abbiamo voluto fare noi.
Ma prima della pratica, un po’ di teoria. Vediamo le principali obiezioni e gli argomenti favore, i contro ma anche i pro, che animano il dibattito. E poi pure un po’ di “scienza della pasta”, per capire il motivo per cui potrebbe funzionare.
La teoria della pasta cotta senza gas: pro e contro
La prima critica alla pasta cotta senza gas è quella della cosiddetta tradizione: “si è sempre fatto così”, “mia nonna si rivolterebbe nella tomba”, “anche mio padre lo faceva, per darla al cane” eccetera. Non è una critica che merita più di tanta attenzione, viene abbattuta subito osservando che se avessimo ragionato sempre in questo modo, staremmo ancora a macellare gli animali con una pietra scheggiata, li mangeremmo crudi, le donne non avrebbero il diritto di voto e solo il pater familias potrebbe concludere contratti.
Non vale tanto, invece, almeno a mio parere, far notare come la maggior parte delle tradizioni siano piuttosto delle invenzioni, delle innovazioni mascherate, contraddette da tradizioni ancora precedenti. Il nostro Luca Cesari, ripreso in questi giorni anche dal londinese The Times, non manca mai di ricordare, nel suo libro Storia della pasta in dieci piatti come altrove, che la pasta dai suoi prototipi greco-romani fino a pochi decenni fa, veniva cotta per lunghissimi minuti, addirittura per ore. Questa cosa, di per sé illuminante, viene spesso utilizzata per sottolineare che la pasta al dente è una fissazione affatto contemporanea. Già, e quindi? Gli antichi romani bevevano anche il vino riscaldato e con aggiunta di miele, sai che schifezza. I gusti cambiano; il costume degli antenati, il mos maiorum, è un’arma spuntata sia per attaccare sia per difendere la pasta cotta senza gas.
Piuttosto, oltre che alla storia si potrebbe guardare alla geografia: e vedere come la cottura del riso per assorbimento dell’acqua, magari avvolgendo la pentola in un panno spesso o una coperta, sia pratica comune in moltissime zone dell’Asia. Una roba esotica? Tornando da noi, anche molte massaie napoletane continuano a cuocere il grano per la pastiera nello stesso modo: certo bisogna stare attenti, alla dispersione di calore e al dosaggio della giusta quantità di acqua; ma si può fare.
Evvabbè, ma riso e grano sono cereali interi, la pasta è un’altra cosa, si dirà. Okay, ma anche qui abbiamo un altro esempio nella cosiddetta tradizione, di un metodo che pur avendo qualche differenza è molto simile e ci aiuta a comprendere che il meccanismo può funzionare: la cottura delle paste “a minestra”, quella che (insieme alla pasta in brodo) si contrappone alla pasta che viene scolata e perciò è detta “asciutta”, da cui la pastasciutta. Le varie pasta e fagioli, pasta e ceci, pasta e patate, diffuse soprattutto al sud: lì il liquido di cottura, che pian piano si restringe formando una crema semi-solida, non bolle mai vigorosamente, eppure la pasta si cuoce. Certo ci mette qualche minuto in più rispetto alle indicazioni sul pacco; certo il gas non è spento ma tenuto molto basso (e però nella maniera antica, quella in pentola di coccio tenuta vicino alla stufa o al camino, la temperatura secondo me era ancora inferiore); però insomma è un metodo “cugino” che mettiamo in pratica serenamente senza sollevare polemiche o dubbi.
Dall’altro lato, la dichiarazione di Parisi è stata contestata per la sua scarsa originalità: “eh be’, ci voleva un Nobel! Questa cosa la diceva già Dario Bressanini 5 anni fa, Davide Scabin 10 anni fa, Gualtiero Marchesi 20 anni fa, mio nonno 100 anni fa!”. Anche qui: e allora? Se questa informazione è risaputa da tempo, ma non è ancora entrata nel comune sentire, nella pratica comune, riproporla non solo è un diritto, ma addirittura un dovere. Sempre che funzioni, s’intende.
Un’obiezione più seria dice: cuocere la pasta a fuoco spento non incide sul consumo di gas in maniera significativa. Comunque bisogna tenere acceso il fornello per far arrivare a bollore l’acqua: 10, 15 anche 20 minuti a seconda della pentola e della quantità di liquido. Tenerlo spento per i successivi 10 minuti quanto fa risparmiare? Pochissimo, soprattutto se consideriamo che nel fornello accanto teniamo un ragù a pippiare per cinque o sei ore. L’osservazione è sensata. Insomma, non mi sono messo a fare i conti, ma non ci aspettiamo di dimezzare le bollette con questo metodo. Eppure, d’altro canto: perché no? Cosa ci fa perdere? Se trovi un euro per strada non lo raccogli? Ancora più precisamente: se ti trovi un euro nella tasca della giacca lo prendi e lo butti per terra? Per non parlare della questione politico-ambientale. Io certe volte spengo il gas per 30 secondi se devo cambiare il contenuto di una padella allontanandola dai fornelli: perché non farlo per 10 minuti, per un’operazione che compiamo quasi tutti i giorni. (Sempre che, ripeto, il risultato sia lo stesso.)
Da qualche parte ho letto una critica relativa alle aflatossine: che sono delle sostanze dannose prodotte dalle muffe che attaccano il grano. Si tratta di funghi molto diffusi sui cereali, che possono produrre tossine (le quali perciò appartengono alla più ampia categoria delle micotossine) che alla lunga danneggiano gli organi interni e possono causare varie forme di cancro. Ma attenzione: queste sostanze, a differenza di altri funghi come i lieviti, non vengono “uccise” dalle alte temperature. Quindi che l’acqua bolla (100 gradi a livello del mare) o meno, dal punto di vista della sicurezza alimentare relativa alle micotossine non fa alcuna differenza.
E veniamo alle obiezioni di sostanza. La pasta rimane cruda dentro, dicono alcuni. E infatti bisogna lasciarla un paio di minuti in più, ribattono altri. Eh ma poi così viene scotta, replicano quelli. No ragazzi, la pasta non viene né cruda né scotta, ma rimane gommosa, collosa, azzeccosa: lo ha detto lo chef Antonello Colonna. E qui non possiamo che dire: facciamo la prova. Ma dobbiamo farla come si deve.
La scienza della cottura passiva della pasta
Perciò prima, finite le chiacchiere e le opinioni, un po’ di scienza relativa alla pasta e alla sua cottura. La cottura che cos’è? È la modificazione chimico-fisica di un alimento per via del calore. La trasmissione di calore a sua volta avviene tramite il passaggio da un corpo più caldo (acqua, aria, padella, brace) a un corpo più freddo (il cibo).
Nel momento in cui si cuoce la pasta – per quanto segue l’input viene da Dario Bressanini e dai suoi video del 2017, grazie – si compiono tre fenomeni: la diffusione dell’acqua, la gelatinizzazione dell’amido, la denaturazione delle proteine. La prima, diffusione dell’acqua calda all’interno di ogni singolo pezzo di pasta, è quella che consente le altre due. L’acqua compie due operazioni: trasmissione di calore e reidratazione. La pasta che troviamo in commercio è pasta secca: un impasto di acqua e farina che dopo la formatura è stato privato della maggior parte del liquido per essere conservato più a lungo. Con l’immersione in pentola della pasta avviene la reidratazione, l’acqua viene “restituita” alla pasta: questo è il motivo per cui invece la pasta fresca, quella fatta in casa come quella presa al pastificio artigianale o al banco frigo del super, cuoce in pochi minuti.
D’altra parte, reidratare non è l’unica cosa che fa l’acqua: penetrando all’interno della pasta diffonde il calore in tutto il maccherone, altrimenti si cuocerebbe solo l’esterno. Questo è il motivo per cui la pasta al forno “a crudo” è una ricetta dalla riuscita non sicura, che comunque necessita di acqua o di altri liquidi, e in ogni caso di una cottura lunghissima.
Il fatto che la reidratazione non è l’unico accadimento necessario, spiega anche altre due cose. Uno: perché anche la pasta fresca vada cotta, anche se per un tempo molto più breve; sennò mangiamo un impasto crudo! Due: perché anche la cosiddetta reidratazione a freddo necessiti poi di un passaggio in padella. La reidratazione a freddo è un altro metodo su cui c’è stato molto hype negli ultimi tempi: mettere la pasta nell’acqua per una notte o più, e poi risottarla direttamente nel condimento. (Mio modesto parere: si pensa di risparmiare un po’ di tempo, si impiega un sacco di tempo.)
Gli altri due fenomeni, quindi, che avvengono grazie alla diffusione del calore portato dall’acqua: la gelatinizzazione dell’amido. Senza entrare troppo nel tecnico, è un processo che porta l’amido (costituito da lunghe catene di due polisaccaridi, amilosio e amilopectina, che hanno una struttura rigida e cristallina) a essere più digeribile: le molecole a contatto con l’acqua si gonfiano, per via del calore perdono la loro struttura e formano una specie di gel; così possono più facilmente essere attaccate dagli enzimi nel nostro corpo. Sì, ma a che temperatura avviene la gelatinizzazione dell’amido? Ecco: tra i 50 e i 70 gradi.
L’altro processo è la denaturazione delle proteine: il frumento – e quindi la farina e quindi la pasta – è composto infatti prevalentemente da carboidrati (amido), poi da proteine (prevalentemente glutine ma non solo) e in minima parte dal grassi e minerali. Anche le proteine, molecole molto complesse e strutturate in modo da essere più volte ripiegate su sé stesse, vanno digerite: il calore è uno dei modi per destrutturarle (denaturazione) e farle ristrutturare in forma diversa (coagulazione), più “semplice” e digeribile. (Il calore non è l’unico modo per compiere questa operazione, si può avere denaturazione per effetto del sale, dell’alcol, di un acido come limone o aceto; perciò quando diciamo che una di queste cose “cuoce” il cibo, diciamo contemporaneamente una inesattezza e una verità.) E allora, quando avviene la denaturazione delle proteine del grano? Tra i 60 e gli 80 gradi: di più non è necessario.
Tutto questo porta a dire che, in teoria, per cuocere la pasta non c’è bisogno di arrivare ai 100 gradi del bollore dell’acqua (cosa peraltro già dimostrata il pratica dal fatto che aumentando l’altitudine s.l.m. e diminuendo la pressione, diminuisce la temperatura a cui l’acqua passa allo stato gassoso, e quindi se ci volessero 100 gradi sarebbe impossibile cuocere la pasta in montagna, ma anche in collina). In teoria, quindi, bastano 80 gradi, volendo esagerare. In pratica, però, è difficile ottenere una temperatura costante di 80 gradi. Ecco perché il metodo prevede che si raggiunga il bollore, che si versi la pasta e che si chiuda con un coperchio. A seconda delle varianti, si raccomanda di aspettare che il bollore riprenda dopo aver calato la pasta, o comunque di attendere uno o due minuti prima di spegnere il fuoco. In ogni caso, come si vede anche dal grafico di Bressanini, dopo 13 minuti dal bollore dell’acqua, la temperatura è ancora ben al di sopra degli 85 gradi, la soglia di sicurezza non è neanche sfiorata.
Pasta cotta a gas spento: la prova pratica
Ci sono una serie di raccomandazioni da fare, di attenzioni da usare, perché tutto vada come deve: il calore potrebbe disperdersi troppo in fretta se l’acqua è poca, se la pentola è troppo sottile, se il coperchio non chiude bene, se fuori fa freddo…
Nella mia prova pratica di pasta cotta a gas spento ho voluto tenere conto di tutti questi parametri, ma considerandoli diversamente. Alcuni, quelli facili da realizzare, li ho messi in pratica seguendoli alla lettera: per esempio la temperatura esterna era quella di una casa in questa stagione, inutile mettersi in esterno di notte in alta montagna solo per far fallire l’esperimento. E così anche con la quantità di acqua, che ho rigorosamente misurato in 1 litro per ogni 100 grammi di pasta, come da regola aurea.
D’altra parte, ho voluto anche stressare alcuni fattori: per le pentole, ad esempio, ho preso quello che avevo in cucina, degli utensili anche abbastanza vecchiotti; il senso è che si deve trattare di una cosa che tutti possiamo fare a casa, senza ulteriori acquisti e con una strumentazione ordinaria, sennò che valore ha? E per la scelta del tipo di pasta, mi sono detto: perché non fare una prova un po’ estrema? Senza arrivare a prendere una pasta artigianale di Gragnano, di quelle che ti dicono cuoce in 20 minuti e poi ci vuole anche mezz’ora; ho scelto una calamarata – di una nota marca di qualità ma presente in GDO – con un bello spessore e un’indicazione di cottura tra i 14 e i 16 minuti.
Per farla seria, ho messo sul fuoco due pentole: una da usare con il metodo senza gas, un’altra per cuocere la pasta con metodo classico; così per avere quello che scientificamente si chiama “gruppo di controllo”. In ogni pentola 1 litro d’acqua. Ho pesato 200 grammi di pasta e li ho divisi con precisione in due (32 pezzi per piatto, se vi interessa saperlo). Dopo una decina di minuti l’acqua ha preso a bollire, ho aspettato un attimo e ho calato contemporaneamente i due piatti.
La prima cosa che ho notato è che il bollore ha ripreso quasi subito, non si è praticamente interrotto: segno che la proporzione 10/1 tra acqua e pasta ha il suo senso. Ho atteso qualche secondo, e prima di incoperchiare una delle due pentole spegnendo il fuoco sotto, ho mescolato un bel po’, come raccomandano molti propugnatori del metodo: lo scopo è evitare che la pasta si attacchi, scaricando l’amido.
(Nel frattempo ho preparato il condimento, un semplicissimo mix di colatura di alici, aglio e olio, da versare a crudo e addensare con un tarallo sbriciolato.)
Ho dovuto resistere alla tentazione di togliere il coperchio per mescolare, mentre ho dovuto più volte girare la pasta che cuoceva nell’acqua bollente: evidentemente si attacca alla pentola per via dell’amido che fuoriesce un po’ alla volta, e per il calore che riscalda il fondo senza tregua. Difatti, paradossalmente, nella pasta cotta con metodo nuovo questo problema non si presenterà.
Dopo 14 minuti, anzi qualche secondo prima, ho prelevato due pezzi da ognuna delle due pentole, e lo stesso ho fatto dopo 15 e dopo 16 minuti. Dopodiché ho subito scolato. Ecco una sommaria analisi sensoriale.
14 minuti
Visivamente, la pasta cotta con metodo tradizionale appare più gonfia, cresciuta in dimensione. Osservando la sezione, l’interno è un po’ crudo in entrambe: permane una sottile linea bianca, più accentuata nel metodo senza gas. Di conseguenza, all’assaggio la pasta è quasi “al chiodo” più che al dente: ma questo per entrambi i metodi. L’unica differenza percepita è quella di una maggiore viscosità nella cottura senza gas: non gommosa, più che altro collosa.
15 minuti
Sempre leggermente più gonfia alla vista la pasta metodo classico, quasi perfettamente cotta all’interno mentre una leggera linea bianca resta nel metodo innovativo. Al morso però quasi non si distingue la differenza, mentre permane la sensazione di collosità nella pasta metodo senza gas.
16 minuti
Ancora differenza di dimensioni percepibile, ma per il resto la cottura è perfetta sia visivamente, tagliando il calamaro in sezione, sia all’assaggio: praticamente indistinguibili i due metodi. Ancora una leggera, ma molto sfumata, differenza nella percezione al palato: la pasta cotta senza gas rimane ancora un po’ collosa. Che abbia ragione Colonna?
L’analisi sensoriale alla cieca e un pezzettino alla volta, ponderando tutti i fattori, ha una metodologia precisa che sicuramente si avvicina a quella scientifica. Ma resto convinto che la vera prova da fare sia sedersi davanti a un piatto di pasta e mangiare. Ed è quello che abbiamo fatto, con l’amico che mi ha gentilmente supportato in questa “cena di lavoro”. A tavola abbiamo notato due cose. La prima: con il condimento – eppure si trattava di un condimento liscissimo, quasi nullo come consistenza – la sensazione di collosità sparisce completamente. Anzi, ipotizzo, una maggiore presenza di amido in superficie può aiutare a “prendere” meglio il sugo. La seconda: non si nota assolutamente nessuna differenza tra le due cotture. Anzi, il metodo classico presenta il difetto che alcuni pezzi si sono spaccati, mentre nel metodo nuovo non è successo con nessuno.
In definitiva, prova superata: e a pieni voti.
Coda politica
E quindi, alla fine tutta colpa/merito del presidente russo? Da un lato, mannaggia che abbiamo regalato soldi a Putin per decenni. Dall’altro grazie Putin che ci hai costretto a riconsiderare il nostro modello di vita sprecona, a mettere in dubbio le nostre più profonde convinzioni alimentari.
A questo punto, la domanda inevitabile: salveremo il mondo, cuocendo la pasta a fuoco spento, o almeno vinceremo la guerra? Io credo che i comportamenti individuali (fare la raccolta differenziata, prendere il bus e non l’auto ecc.) siano importanti, non irrilevanti; ma credo anche che la loro rilevanza sia minore rispetto a quella di altri fattori, e credo che la retorica dei comportamenti individuali sia un ottimo metodo per sfuggire dalle responsabilità politico-economiche e per puntare il dito dalla parte sbagliata, sviando l’attenzione.
Quindi: serve a qualcosa? Sì. Risolve il problema? Fino a che la gestione di un bene come il gas, che è lo stesso per tutti, sarà assurdamente in mano a più compagnie creando confusione e permettendo speculazioni; finché i profitti cresceranno a due cifre mentre i salari non reggeranno neanche l’inflazione; finché le emissioni di gas serra saranno regolate dallo scandaloso sistema delle quote in vendita, permettendo ai ricchi di inquinare al posto dei poveri; finché sarà populista parlare di jet privati, aerei che solamente per decollare bruciano energia sufficiente a cuocere tonnellate di pasta; beh, la risposta è no.