Ha fatto clamore la decisione della guida Michelin di togliere l’unica stella al ristorante Il Canto. C’è stata una levata di scudi contro questa decisione, inaspettata, perché Paolo Lopriore è considerato uno dei migliori chef italiani. Eccomi quindi alla Certosa di Maggiano, tipico Relais & Chateaux, poco lontano da Piazza del Campo in quel di Siena. Elegante il ristorante e impeccabile l’accoglienza così come il servizio al tavolo nel corso della serata. Non posso fare altro che affidarmi allo chef dandogli carta bianca. Studierò invece con attenzione la carta dei vini e subito si accende un primo campanello d’allarme. La sfoglio più volte ma non c’è traccia di vini francesi, nemmeno l’ombra, se non qualcosa nei vini da dessert.
Chiedo lumi al giovane e bravo sommelier ma la sua risposta fuga ogni dubbio. “Per ora abbiamo deciso di non inserire vini francesi in carta”. Senza nulla togliere ai nostri vini, ci mancherebbe, non credo sia stata una scelta giusta. Un ristorante e un luogo di questo livello, un Relais & chateaux, non può fare a meno di qualche etichetta d’oltralpe e se questa mancanza è apparsa così evidente a me immagino agli ispettori della Michelin notoriamente molto sensibili a questo particolare, che piaccia o meno.
Arriva l’appetizer, “Gioco di forme, consistenze & sapori” che tradotto significa semi di zucca tostati – pane al vapore con uovo di trota – foie gras, mela verde e zucchero alla liquirizia – cocco & rafano – sarde a beccafico. Cinque piccoli assaggi. E’ vero, è proprio un gioco di consistenze, di sapori che violentano il palato.
“L’insalata di alghe, erbe aromatiche e radici”, da mangiare con le mani, continua sulla stessa lunghezza d’onda. Faccio fatica a comprenderne il senso.
Arriva il “Yè su xin, tartufi di mare e aceto di moscato”, piatto molto particolare ma comincio ad aver voglia di qualcosa che riporti la mia memoria al luogo dove mi trovo. Il piatto che seguirà non esaudirà i miei desideri anche se la cottura dei “filetti di triglia, scorza di agrumi e semi di finocchio” sarà pressoché perfetta.
Arrivano al mio tavolo due piatti che riveleranno tutta la bravura dello chef. “Pino, funghi, midollo e tartufo bianco” e ancora di più i “Petti di piccione in “civet” saranno due portate da bis. Se ne rallegra anche il mio Brunello che sprigiona finalmente tutta la sua classe.
Ecco i “Ravioli di moscato, capperi e origano di Serragghia”. Anche questo un piatto ben studiato, equilibrato, ma non mi scalda il cuore complice la temperatura, volutamente fredda, del piatto. Il “Cioccolato amaro, lime, panna&caffè” non riuscirà a distogliermi dai pensieri, contrastanti, che ho continuato a rimuginare durante la cena.
Ho riflettuto a lungo, cercando di esprimere il mio giudizio con la massima attenzione. Il valore dello chef, la sua bravura, non sono minimamente in discussione ma ho trovato la sua cucina avulsa, troppo, dal territorio dove opera.
Ne ho discusso dopo la cena con Paolo Lopriore, persona di una gentilezza fuori dal comune. Il suo punto di vista è quello di portare avanti la propria idea di cucina, di darle il suo marchio, la sua personalità, a prescindere dal luogo. Io invece credo che uno chef, per quanto voglia sperimentare, dare libero sfogo al suo estro, non possa “rinnegare” il suo territorio. Non può non attingere, nemmeno in minima parte, dai prodotti che la terra circostante gli offre, fosse solo come punto di partenza per elaborare nella direzione che predilige. A maggior ragione, come gli ho ribadito, quando questo territorio si chiama Toscana, Siena, e le sue dolci colline.