Mentre provo a prenotare il brunch della domenica e non ci riesco (tre turni su tre full), ripiegando su un pranzetto affacciato nel prosciugato naviglio Pavese di Milano, mi sorprende inaspettata la saudagi del pranzo domenicale da mia nonna
Quel pranzo che neanche tenendo fede alle ricette tramandate, potrei mai riuscire a replicare. “L’umbrietudine” da tavola diventa un’imitazione mal riuscita se riproposta fuori dal territorio. Ecco il menù della nonna Umbra.
Antipasto.
Di solito misto, composto da crostino con paté di fegatini (un simil crostino toscano, più gentile perché addizionato con poca carne bianca), prosciutto salato e”gnorante” fatto con le rigorose mani del nonno e lasciato stagionare e salare in cantina per almeno 6 mesi, crostino rosso con la passata di pomodoro delle donne di casa. Tocco finale: 2 olive verdi dolci e grandi che credo servissero come colpetto di creatività e di colore.
Primo o primi (dipende dalle feste).
Tagliatelle fatte in casa col sugo. Un rito. La tagliatella stesa al mattino: se si aveva l’accortezza e la forza di arrivare verso le 10 si poteva assistere alla più grande lezione sulla sfoglia, il matterello e l’affascinante pulizia finale della spianatoia. Con le tagliatelle sugo umbro, bando alle ciance! Carne di vitello, salsicce e costato di maiale a far blu blu in mezzo alla passata casalinga per almeno 4 ore. Sempre arrivando presto si poteva assistere al bizzarro fenomeno della fila davanti alla pentola: tutti gli avventori con un pezzettino di pane in mano, possibilmente un pochino raffermo, in fila per tuffarlo dentro al sugo. Nelle domeniche più difficili gli stessi avventori inscenavano un teatrino che come tema centrale aveva la sapidità del sugo. Obiettivo: assaggiare il sugo sempre col pane sciapo 5 o 6 volte, per poi decretare che no, non c’era sale da aggiungere.
E attenzione a lasciar sempre un abbondante avanzo di tagliatella per il pranzo del lunedì, anche meglio di quello della domenica. Tagliatelle riscaldate in padella con relativa crosticina croccante: se avessi un ristorante, le metterei nel menù.
Se era una domenica di festa, seguivano i cappelletti in brodo. Brodo di gallina ovviamente.
Ed è a questo punto che si vedono i duri e puri del pranzo domenicale: quelli portati ad arrivare con nonchalance fino in fondo. Prendono uno di tutto, bevono molta acqua e parlano poco. Quello che prende due volte le tagliatelle al sugo è destinato a scoppiare prima della fine, chi salta l’antipasto è diseredato, chi non prende i cappelletti eretico.
Secondo e contorno.
L’arrosto: cosa da uomo in casa mia. Ai miei occhi sarà sempre mio nonno davanti al forno a legna, mani d’amianto, guance rosse, un bicchiere di vino accanto. Pollo, che una settimana prima avevi visto razzolare nell’aia, coniglio che da piccola, tua nonna abituata a poche manfrine, ti scuoiava generalmente davanti agli occhi, piccione di cui per fortuna non ricordi le origini e agnello. Contorno di patate al forno e insalata dell’orto croccante e dolce.
Dessert.
A piacere. Poteva essere una crema pasticcera al cucchiaio con dentro un savoiardo pucciato nell’alchermes, lo strambo tronchetto della felicità a Natale, le castagnole al miele a febbraio e marzo.
Ecco la mia nostalgia, ecco l’irreplicabilità del pranzo della domenica fuori dalla cucina rustica umbra, ecco perché il brunch non mi fa sognare e mi riavvicina inesorabilmente alla mia umbrietudine.
Per i prossimi 5 minuti smettetela d’essere così razionali, e ditemi qual è il vostro pranzo della domenica preferito, quello irreplicabile o quello che vi fa venire la nostalgia?
[Crediti | Immagine: Gourmet]