Schiscetta, baracchino, gamella, gavetta, doggy bag, bento box… E a Napoli, come si chiama il contenitore per portare il pranzo al lavoro? Per anni ho pensato che nella mia regione non esistesse questo termine, poi l’illuminazione: certo che non esiste, perché non esiste proprio la COSA. In Campania ci si porta la marenna, un panino con dentro (a dispetto dell’understatement del termine) l’impossibile, avvolto in una mappata. Ragioni climatiche ed economiche interessanti stanno dietro questa differenza.
Esistono parole che in italiano non esistono, e sono quasi sempre cose da mangiare.
(“Oh ma chi cavolo è questo? E come cappero parla?”). Ok ciao, piacere, sono Dario, passavo di qui e siccome è un bel posto, penso di fermarmi un po’.
E sì, le parole sono importanti (ma mai quanto le alici fritte), allora mi spiego: ci sono delle cose che, a seconda della città, regione o area geografica, assumono nomi diversi, a volte anche molto diversi. Ognuno pensa di avere ragione, anzi nelle situazioni più disperate ognuno pensa che si dica così in tutta Italia. E, lo avete notato?, nella maggior parte dei casi succede quando si parla di cibo. Alzi la mano chi non si è mai smarrito nel labirinto gastro-semantico che va dai friggitelli ai cavoli passando per friggiarelli, friarielli, broccoli, cime di rapa, broccoli di rapa, broccoli di cavolo, cavoli/broccoli, cavoli baresi.
Ne sa qualcosa il povero terrone che ha provato a cercare invano la spigola nelle pescherie del nord, o il settentrionale che ha ordinato un branzino in un ristorante di giù (sono la stessa cosa). Makes sense: civiltà contadina, varianti regionali nate prima che l’unità d’Italia fosse anche solo immaginabile, prodotti della terra che affondano le radici (ops) in epoche preistoriche ecc. Vabbè, poi non ci siamo messi d’accordo neanche su una cosa recente come il chewing gum, che a seconda delle zone può essere cicca, cicles, cingomma o (con bellissima inversione tra attivo e passivo) gomma masticante.
Comunque, c’è da dire che a volte la differenza non è solo nelle parole, ma nelle cose stesse: evidente, oppure impercettibile. Per esempio, restando in pescheria: pagello (nord) e pezzogna (sud) sono pesci diversi, anche se cugini. E forse quello di cui vi voglio parlare è proprio uno di quei casi. Sì perché tutta questa premessa è per dire: io per anni ho pensato che a Napoli e dintorni non esistesse un termine per dire schiscetta. Tutte le volte che al lavoro, prima della pausa pranzo ho fatto delle facce inorridite alla domanda “devi comprare o hai la schiscia?” (a Milano si accorciano anche i diminutivi), giustamente i colleghi chiedevano ok, ma voi come la chiamate.
E io muto.
Anche quando di recente un’amica è partita con il sondaggione, appunto, how do you say in italian…?, sono venute fuori le varianti più assurde: schiscetta gavetta gamella baracchino e compagnia cantante.
E io zitto. Finché, a pensarci un po’, mi si è accesa la lampadina.
Ma certo! La parola napoletana per schiscetta non esiste, perché non esiste la cosa! In effetti, non esiste un contenitore dove si mette il pranzo da tenere in caldo, o riscaldare al micro. Per ragioni credo un po’ climatiche, un po’ relative ai tipi di lavoro più diffusi, il corrispondente (culturale e non materiale) è la marenna. L’assonanza è con l’italiano merenda, come termine più moderno (e credo più borghese) si usa anche colazione: non è raro vedere in certe salumerie (ecco un’altra cosa che con mio grande stupore da emigrante al nord non trovai: un alimentari che vende il pane, e anche il companatico) il cartello “Si preparano colazioni” – cappuccino e brioche non c’entrano niente. Se parliamo del contenitore, la marenna non è un tupperware, ma un involto di stoffa e/o carta (detto mappata) che contiene un panino imbottito.
Il ripieno, marenna!
Ma ovviamente non parliamo del contenitore, bensì del contenuto.
L’apparato terminologico modesto (merenda, colazione, panino) non tragga in inganno, perché non si tratta affatto di un pranzo leggero. Partiamo dal pane: “panino” è riduttivo, perché nella maggior parte dei casi sarà uno sfilatino, o ancora meglio un mezzo palatone – con il cuozzo che fa da clausola di salvezza contro le perdite di sughi – o una mezza cocchia.
E dentro, ci si può mettere di tutto: è raro infatti che vi sia la classica farcia da paninetto prosciutto e formaggio, anche se dicono proprio dall’imbottitura pomodoro e mozzarella sia nata la caprese “al piatto”. Più facilmente sarà una cotoletta, un pezzo di parmigiana di melanzane, una frittata (sì, anche una frittata di maccheroni, a noi sommare carboidrati non ci ha mai fatto paura, avete mai sentito parlare della pasta-e-patate?), polpette al sugo, salsiccia e friarielli, soffritto napoletano, un pezzo di carne al ragù o alla genovese. In genere, ci si mette una cosa avanzata dal giorno prima, o elaborata con gli avanzi: e in questo ci riavviciniamo all’origine storica della schiscetta, similmente composta.
Ma attenzione, non esageriamo. Da un lato infatti il pezzo di pane non è un mero contenitore, come in certe versioni moderne e gourmet dello street food. Dall’altro, è vero che ci si può mettere di tutto, ma non letteralmente tutto: bisogna trovare il giusto mezzo tra l’asciutto e il brodoso. Certo non ci può andare una minestra; ma pure la suddetta cotoletta andrebbe meglio accompagnata da una melanzana a funghetto, da una zucchina alla scapece…
Insomma il condimento deve rendere umido il pane, ma non deve trasbordare rendendo catastrofico il morso: sempre di panino si tratta, e ricordiamo che poi rispetto a quando viene preparata al mattino, la marenna va consumata ore dopo, quindi il pane avrà modo di assorbire i sughi imporpandosi senza ammosciarsi. La tendenza all’unto, allo ‘nzevato, è però inevitabile.
Come inevitabile è la tendenza al sovradimensionamento della porzione. Altro che merenda, deve pur sempre essere un pranzo, insomma, e un pranzo per sostentare uno che ha faticato e deve faticare. La marenna infatti come dicevo è tipica dei lavoratori manuali, che a Napoli e dintorni non sono tanto operai di fabbrica ma di cantiere edile (fravecatori) o contadini, braccianti, lavoratori a giornata. Si mangia il più delle volte all’aperto, o comunque senza tavola o mensa né posate. La marenna non si porta “al lavoro”, si porta ‘ncopp’ ‘a fatica. E gli impiegati, direte voi, il vasto ceto medio di dipendenti statali, parastatali e affini, tipico del meridione? Beh facile, quelli tornano a mangiare a casa.
Dove mangiare la marenna
Poscritto utile. Molti locali di street food si sono ispirati al concetto di marenna, richiamandosi però nel nome al cuozzo, il culo del pane che ne costituisce l’involucro commestibile.
E così per esempio abbiamo ‘O cuzzetiello, di cui vi abbiamo appena parlato a proposito di steet food napoletano, e ‘A taverna d’o cuzzetiello, sempre a Napoli, o Il cozzetto, nella vicina Giugliano.
Curiosamente, il nome di marenna lo porta un ristorante stellato, in Irpinia, Marennà (a proposito, ma perché un sacco di posti cool prendono una parola e spostano l’accento?).
E poi, colpo di scena, un locale da poco aperto in Germania, a Beilstein, piccolo comune della Renania-Palatinato: si chiama proprio A Marenn e nasce da un’idea di tal Gabriele Graziano, imprenditore di origini campane; lo scopo è quello di fare una piccola catena, a breve apriranno altri 2 punti vendita di cui uno a Stoccarda, lui racconta di aver già avuto un’offerta da Dubai. Non abbiamo ovviamente avuto modo di provarlo, ma a giudicare dalle foto sul sito, a parte il pane che è il panino arabo tipo da kebab – deve pur sempre piacere ai tedeschi – il concetto di ripieno vario e abbondante c’è. Senza dimenticare che, naturale, la marenna migliore del mondo è sempre quella che ti prepara mammà.
[Immagini: nell’ordine, ‘A taverna d’o cuzzetiello, A marenn, ‘O Cuzzetiello; foto copertina ‘O Cuzzetiello]